Recinti e paletti

«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia». (Leonardo Sciascia)

Io due o tre paletti per i miei sistemi di relazione li metto. Mica me ne sto a tirar su muraglie alte e fitte, che un po’ di ecumenismo m’è rimasto. Nemmeno mi faccio o Savonarola o Torquemada, a seconda dei casi, mettendomi a fissare limiti comportamentali ai prossimi più prossimi. Un recintino alto il giusto, che da lì non si passa, ma basta avere le chiavi e c’entri facile, appunto, schivando quei due o tre paletti che misi all’uopo. Certo, se ti piace far cagnara, urlare e sbraitare, parlare di mala maniera, lì non c’entri. Se ti sollazzi di bum bum, di cucine molecolari, se sei astemio per convincimento ideologico, non è che ti tratto male, ma te ne fai una ragione a star dall’altra parte del labile confine. Se sei uno che si mette a saccheggiarti casa, dipende, se sei Fra Dulcino, ti dico dove ho messo i preziosi (questa mi viene facile che di preziosi non ne ho, se non taluni da frigorifero), per il resto portati pure quello che ti pare, foss’anche solo virtuale, che alle cose m’affeziono poco, e anche con le idee ho rapporti conflittuali. Ma se sei entrato a casa mia sei pure ben consapevole di quello che ci trovi, se no cosa ci sei venuto a fare?

Posto questo, il recintuccio, con tanto di paletti agli angoli, mi si è sempre mostrato trasparente, e di là di quell’invisibile barriera, talora, pure solo di sgambescio, qualcuno ti s’avvicina, per un istante o due, che più di tanto non gli è concesso, né credo si ponga interesse particolare a starsene in quella specie di ghetto. È cosa che capita a chi vive sotto questo cielo, però, che non può negarsi l’affratellamento collettivo, non dico con tutte le 7 miliardi e più di creature umane che ci vivono, ma con una parte pur esigua di esse. Capita, dunque, che poi li leggi sul giornale, che hanno rubato a sette ganasce, che si sono spartiti posti e prebende, frodato e truffato, per carità, fino a prova contraria. E ti fa sempre specie, ché non ti abitui. Che rubare, l’ho detto, non è cosa gradita, ma anche lì dipende. Che poi, di primo acchito, mi verrebbe pure di fare i nomi, financo i cognomi, che tanto li hanno fatti pure i TG, con tanto di fototessera che pareva scattata da Lombroso in persona. Ma se li facessi punterei l’occhio sul caso, non sul fatto che del caso è assai più diffuso. Ch’è quello, il fatto intendo, la malattia. Che non si cura solo col carcere degli scemi del villaggio globale che sono incappati nelle tenaglie strette della giustizia (che ci vadano, senza passare dal via, si spera). Ma con una bella quantità di sedute psichiatriche collettive che spieghi al resto non ancora beccato – ed ho ragione di credere che sia resto assai cospicuo – che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare di capire come fregare il prossimo tuo (e non come te stesso) è malattia, che pure è patologia anelare il potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue e non ti viene l’ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni e poteri. Che se poi te ne stai buono e tranquillo, mi sa pure che non t’angosci, anche se, capisco benissimo, che se ti sei strafogato qualche milione fregando e frodando, il tutto di tutti, non t’avvedi di certo che non ti sei rubacchiato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma ti sei rubato l’equivalente d’una partita di chemioterapici, il buono mensa per qualche bambino della materna, la pulizia del parco giochi… E lo so che tu non te ne rendi conto, che la cosa il sonno non te lo toglie, che sei un tossico e pure dipendente, ma allora fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto per mancanza di fondi, che quelli se li sono intascati i fenomeni come te.

Porte chiuse

Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.” (Leonardo Sciascia, Il mare color del vino)

Faccio ritorno a casa che fu fortuna mia ch’ebbe convenzione amministrativa, sia pur per poco chilometraggio d’essere a suolo patrio. E avvenne, detto fatto, mentre s’erge, ad orgoglio italico, imponente barriera a franginero per difesa di coste sacre d’impero, pure si fa a colpo di disgraziato guerra d’intento tra Alpe ed Oltralpe – s’ode a destra squillo di tromba che a sinistra risponde squillo – occhio attento a trafiletto s’avvede di notiziola a passo in sordina. Mi feci a sobbalzo per dato di m’inquieto d’immenso, ma nemmeno troppo che era cosa a fatto risaputissimo per emersione, a tanto in tanto, quale cosa carsica. Insomma, a fastidioso ripresentarsi di centinaia a disperazione, è data risposta con milione di produzione nostrale ad esportazione che scappa e va via. A scorgere esatto dato manco è connazionale di cervello pregiato fuggito, ma è assai altro più complesso, pure manovale che a scopo non si specializzò, financo pizzaiolo e idraulico. Pare che italica porzione se ne sia andata ad altro paese a numero di 4,5 milioni, che se fatto si unisce a che non nasce nessuno, finisce che questo Belpaese diventa reparto geriatrico.

Ora, io comprendo che ad eventualità non c’è di trovar braccia per pagamento di pensione, non si trova operaio, nemmanco medico e professore (ma questo chi se ne frega, che non c’è alunno), mi sovviene che taluno disse che non c’è a trovarli che acchiappano a parassita reddito di cittadinanza. A punto di questione, e a lettura esatta di dichiarazione roboante, chi si fece valigia a partenza, fuggì da evenienza tragica che gli venisse concessa pacchia a non far niente. Che mentre m’arrovello su come si può a far fronte a cosa a domani non troppo lontano, mi sovviene che, al limite, a non trovar soluzione, sempre si può dire che trattasi di efferato crimine di comunismo, che già taluno si portò avanti in detta direzione, che aborto è problema a tasso di natalità estinto, e che terribile usanza di certa sinistra di mi mangio i bambini è cosa a spregio d’ogni umanità e prefigura danno erariale.

Tempi grami s’attendono che paese nostro, che fu di santi, poeti e navigatori, a finché la barca va che ad affermazione è desueta, s’appresta ad esser paradiso di badanti.

Risposta esatta!

«Ma tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di tante novità. E non soltanto io: anche la gente che incontravo ogni giorno era nella mia stessa condizione. Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.» (Todo Modo, Leonardo Sciascia)

Faccio fatica a pormi domande, quasi sempre a quelle si risponde, e ciò che mi appartiene, in virtù d’argomentazioni personalissime, non somiglia affatto ad una qualsiasi risposta. Ed allora se mi scappa – per accidente, intendo – una domanda, evito accuratamente di darmi risposte. Pure, per le medesime ragioni, sono sempre molto preoccupato se, nell’intercalare conviviale d’una qualsiasi conversazione, magari indotta da certi tassi alcolici, taluno mi s’appresenta con una domanda, di quelle a bruciapelo, che pretendono risposte d’immediatezza, senza indugio, a lasciare presagire sapienze enciclopediche, saggezze antiche. Preferisco navigare nell’approssimazione delle mie incertezze, mi ci trovo al calduccio tra i dubbi, nemmeno m’arrovello a tentarne soluzioni. Questo, ed è finalmente – per una volta – indubbio, mi concede distratta attenzione rispetto ai mutamenti del tutto d’intorno, semmai ne colgo le drammatiche conseguenze. Sulle ragioni che le hanno indotte non ho argomenti, risposte, appunto, la pochezza dei miei ragionamenti non arriva a coglierne l’insanità. Del resto sono così terribilmente rapidi che certe propensioni protoafricane nel mio DNA mi inducono ad evitarle, a schivarle, cacciarle via come mosche fastidiose, a favore d’altre contemplazioni, talora ammantate d’una certa pietas per le umane tragedie che non so da dove mi viene. Le risposte giuste, quelle al fulmicotone, preferisco (non) ascoltarle dalla classe dirigente, quella illuminata che ne ha sempre di perfettissime, anche se ho percezione istintiva che sbagliate fossero le domande.


«“Buon giorno”, disse il piccolo principe.
“Buon giorno” disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete.
Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere.
“Perché vendi questa roba?” disse il piccolo principe.
“È una grossa economia di tempo”, disse il mercante, “Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si
risparmiano cinquantatré minuti a settimana”.
“E cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quel che si vuole…”
“Io”, disse il piccolo principe, “se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio
adagio verso una fontana…”
» Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry)

Radio Pirata 62 (per ri-sopraggiunto disgusto)

Mi viene a dispetto di statistica di frequenza di far puntatissima di Radio Pirata ché troppo mi pare ghiotta ragione di cronaca e pure ho dotazione di musica a sufficienza per mille mila puntate a schioppo d’uopo e che pare frustatissima di sound infinito. Puntata precisa di questa è di numero Sessantadue che pare ieri che iniziò grande avventura di detta emittente che si fece corsara e brigante insieme, ma che nulla rubò a povero per dare a ricco, nemmeno fece il contrario però, ad ammissione con cuore in mano, ché miserabile, a detta di smentita d’immaginario, non pare abbia dotazione per far furto con destrezza che altri fanno con estrema abilità assai meglio. Ed è ora che detto brigantaggio sia a canto esatto.

Si è chiuso grandissimo vertice di (robo)Cop28 con grande successo che si mise bambino goloso con chiavi in mano a guardia di dispensa con dolciume d’ogni fatta e gli si disse, a voce bassa, che non entri nessuno lì, ma tu ci hai chiavi, fai tu… Così a formula finale c’è sommo gaudio che ci si scrisse che c’è pure petrolio che brucia, ma che ci possiamo fare noi se a crepare siete voi? Che ci cambia assai clima che già stiamo a fatto di deserto? Pazienza. Stappo sciampagnino.

C’è tale a scarso ritegno che continua a che muore ora sotto gru, ora ad incidente di lavoro vario, che distratto. D’egli non parlo che ci fu consegna di silenzio. Mio giovane collaboratore si fece esperto di lavoro a miniera, che dica egli due cose in fila ch’io mi taccio che di lavoro poco m’intendo: «Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula, non aveva paura: né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in un stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.» (Luigi Pirandello)

C’è cosa che non torna in conto di grande economia che firmai io o firmasti tu? E pare cosa strana che c’è a litigio su chi fece cosa su cui tutti c’è gran concordia che a dichiararla, gran concordia intendo, c’è rischio di passar male tu o io. Allora io dico ch’è colpa tua e tu dici che colpa è mia, che teniamo posizione a gioco delle parti che c’è popolo bue che si beve barzelletta di gran differenza a fatto economico tra destra e manca (in tutti i sensi). Ancora ho a far ricorso a giovane collaboratore che di detti fatti di economia di latrocinio si occupò talora.«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia”. (Leonardo Sciascia)

Pure lascio spazio a parola d’altro giovane collaboratore per scarsuccia attenzione a fatto che avviene a Striscia, che là pare umanità a deraglio definitivo. Io di commenti dabbene me ne feci privo. «Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso. L’assassinio è quindi il tentativo di raddrizzare la follia di questa falsa percezione con una follia ancora maggiore: ciò che non è stato visto come uomo, eppure lo è, viene trasformato in cosa, perché non possa confutare, con un movimento, lo sguardo del pazzo». (Theodor Adorno)

Che nemmeno disdegno a far notizia di festona imminentissima – che io me ne torno a casa – che cominciò a gran scoppiettio stagione d’acquisto e si dispiegano le file, quali allegre processionarie, a sguardo a sorriso spento ed occhio a nulla estatico, di corsa ad accaparramento che non c’è domani… “con la massa degli oggetti cresce… il regno degli enti estranei a cui l’uomo è soggiogato. È lo stadio supremo di un’espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. Il bisogno di denaro è quindi l’unico bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che esso produca“. (Guy Debord)

Esilio a non precisa dichiarazione

“Oh, la bellezza di una coppiera che allunga
le dita con la sposa del vino, cinta di collane di schiuma!
Ti ha dissetato con un vino puro, fatto veramente
d’uva, splendido qual sole che sorga
d’un tratto sulla sua sfera vermiglia.
Ah, come si risveglia in seno a colei
i cui canti fugano gli affanni!
Diventa il corpo — grazie al suo benefico
agire — come pervaso di dolci aliti di piacere,
e la mano della coppiera sembra quasi parlare
fascinose parole, e trar suoni
da incantevoli cetre…”
(Ibn Hamdis)

“Di Salvatore Quasimodo nella cui poesia il tema dell’esilio (l’esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell’isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto. E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più di otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei”. (Leonardo Sciascia)

Perché Ibn Hamdis, poeta che pare immenso, era arabo e pure siciliano. Dunque si fece i conti con la ferocia liberatoria di Ruggero, allorché il suo “stupido” sultanato non venne a conflitto con altro prossimo. Che i due contendenti attenti assai a disegnar bellezze, si scordarono d’armare adeguati giannizzeri. S’affidarono, dunque, a tal Ruggero ed ai suoi civilissimi mangiatori di carne cruda a bivacco da qualche parte peninsulare. Quelli, risolta la tenzone, pensarono bene di prendersi tutto facendosi liberatori. Tralascio, più per evitar lungaggini, d’affermare che cristiani ed ebrei vivacchiavano discretamente da quelle parti senza necessità di liberazioni non troppo richieste. Il poeta e tanti altri fecero a combattimento per difesa di patria, ma poi furono a caccio per esilio permanente. Il prode Ruggero, a spada ammorbata di vittima, si fece a stupore per tanta bellezza conquistata che si conciò che pareva sultano converso facendosi pure far scomunica papale. Ad esclusione di parentesi illuminata di Stupor Mundi, saraceno fu vietato ed ebreo s’obbligò a marrano, ad esilio, oppure oggetto di polvere alla polvere.
Ma bellicosa armata di liberazione si portò dietro certa mitologia che rimase a fatto di cosa sicula come enormità di spettacolo, l’Opra de’ Pupi. E che miti i pupari, a muovere pupi a ritmo perfetto e sincronia immaginifica, a rotear spade a colpo ferire. Di quelle precisissime figure, autentiche opere d’arte (e chiedo venia che non ve ne fornisco foto che non ne trovai qui ed ora), si facevano voce narrante di fatti a canovaccio mai scritto a precisione, campioni d’improvvisazione con timbri attoriali a concorrere con immensi protagonisti di teatri di prosa. Pure io, bimbo, di tanto in tanto m’attrezzavo a tal spettacolo con entusiasmo da prima alla Scala e cosa di festa autentica.
Ci fu fatto che avvenne in una fine estate, con coloritura di pubblico pagante e plaudente a virar verso il bruno fitto, causa esposizione solare d’estate senza crema antibrucio. Ad apparizione sua, il prode Orlando, con tanto di rutilante commento narrante, sguainò la Durlindana e si mise a mozzar teste di saraceni con precisione chirurgica d’abilissimo signore del tiro fili. Ma avvenne cosa mai vista né sentita che pubblico bimbo insorse. E sarà stato perché il vil turco, tinto all’uopo di bruno, pareva ora lo zio, ora papà, ancora nonno di questo o quell’altro, anche ce n’era taluno con faccia più lucida di creatura a somiglianza precisissima d’amico del cuore. Abile puparo comprese l’antifona e a nuovo sguainar di Durlindana, il prode Orlando perse la testa per mano infedele a festa grande che con la sua finì il rotear di teste altrui. Che mi viene morale in scrittura d’altro conterraneo di Ibn Hamdis: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.” (Gesualdo Bufalino)

Chiudete le porte

Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.” (Leonardo Sciascia, Il mare color del vino)

E mentre s’erge, ad orgoglio italico, imponente barriera a franginero per difesa di coste sacre d’impero, pure si fa a colpo di disgraziato guerra d’intento tra Alpe ed Oltralpe – s’ode a destra squillo di tromba che a sinistra risponde squillo – occhio attento a trafiletto s’avvede di notiziola a passo in sordina. Mi feci a sobbalzo per dato di m’inquieto d’immenso, ma nemmeno troppo che era cosa a fatto risaputissimo per emersione, a tanto in tanto, quale cosa carsica. Insomma, a fastidioso ripresentarsi di centinaia a disperazione, è data risposta con milione di produzione nostrale ad esportazione che scappa e va via. A scorgere esatto dato manco è connazionale di cervello fuggito, ma è assai altro più complesso, pure manovale che a scopo non si specializzò, financo pizzaiolo e idraulico. Pare che italica porzione se ne sia andata ad altro paese a numero di 4,5 milioni, che se fatto si unisce a che non nasce nessuno, finisce che questo Belpaese diventa reparto geriatrico.

Ora, io comprendo che ad eventualità non c’è di trovar braccia per pagamento di pensione, non si trova operaio, nemmanco medico e professore (ma questo chi se ne frega che non c’è alunno), mi sovviene che taluno disse che non c’è a trovarli che chiappano a parassita reddito di cittadinanza. A punto di questione, e a lettura esatta di dichiarazione roboante, chi si fece valigia a partenza, fuggì da evenienza tragica che gli venisse concessa pacchia a non far niente. Che mentre m’arrovello su come si può a far fronte a cosa a domani non troppo lontano, mi sovviene che, al limite, a non trovar soluzione, sempre si può dire che trattasi di efferato crimine di comunismo, che già taluno si portò avanti in detta direzione, che aborto è problema a tasso di natalità estinto, e che terribile usanza di certa sinistra di mi mangio i bambini è cosa a spregio d’ogni umanità e prefigura danno erariale.

Tempi grami s’attendono che paese nostro, che fu di santi, poeti e navigatori, a finché la barca va che ad affermazione è desueta, s’appresta ad esser paradiso di badanti.

A tutto sconto

“Chiunque facesse crescere cinque pannocchie di grano o due fili d’erba là dove prima ne cresceva uno solo, avrebbe fatto un miglior servizio al suo paese che tutta la razza dei politici messa assieme.” (Jonathan Swift)*

Al mio fabbisogno vitaminico, mineral-fibroso, nei tempi di stazionamento isolano, ci pensa il buon Nino. Egli ha orto piccolo ma ben messo, ne raccoglie messi a tempo d’albeggiare, poi carica il suo camioncino Lupetto che fa trasporto contraddicendo dettami certi della scienza a merito di sua età vetusta, e nel pomeriggio le vende sotto il balcone di casa mia. Ne traggo giovamento certo, che hanno sapore ai limiti del peccaminoso e prezzo che concorre a sbaraglio financo concorrenza di grande distribuzione a prezzo d’hard e sapore al plasticoso andante con medesima sollecitazione di papilla gustativa a nessuna differenza fra specie orticole.

Pure ne trae giovamento la mia anziana madre quando s’accoglie ad ospito autoproposto a casa mia, e, chiamando a gran voce il mite contadino, s’approvvigiona di frutti della terra a calar di cesto di vimini da balcone di mio primo piano. La cosa la diverte anche a evidenza che fatto pare di sé assai a folclore locale che il turistume immortala con scatto a cui ella non si sottrae, che poi me lo racconta con orgoglio nazional-propagandistico, che assurse a monumento pregiatissimo. Il buon, anzi, l’ottimo Nino, ad esperienza di tradizione antica, fece a meno di serra a derivato di petrolio, pure di chimica ad aggiunta, e si consentì solo roba a stagione precisa, senza sgarro alcuno. Prezzo bassissimo è per impresa mononucleare, distanza tra colto e mangiato di cinque chilometri e tempo cinque minuti. Manco ebbe spesa per grande frigorifero di mantenimento di derrata, nemmeno piccolo invero, che tutto raccolto va venduto, quindi a prezzo di grande attrazione ch’egli svuota a sera esatta intero carico. Mi balenò che poteva essere sovranità alimentare conclamata, ma ebbi smentita da dimensione a verifica de visu di dimensione di suoi possedimenti. Per sfamo popolazione intera c’è necessità d’altro, serra a più fioritura annua, pesticida e fertilizzante a iosa, di grande Tir, frigo capiente, confezionamento all’uopo, distribuzione a mega impianto. Costo su costo s’arriva a compiacersi di grande sconto a scaffale supermercatese, che non si sa come sia possibile. Mi parve che miracoloso successo sia dovuto ad essenza di fatto che raccolta mi sa che è a sfrutto di braccia rubate ad annegamento. E allora mandiamoli tutti a casa superstiti d’annegamento, che di Nino ce n’è solo qualcuno, e poi facciamo a far fila a cassa di banca per mutuo ad acquisto di mazzo di lattuga.

Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di un uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo.” (Leonardo Sciascia)

*A tutti i migranti che si spezzano la schiena per qualche centesimo, a cinquanta gradi dentro una serra, a respirare merda, a ringraziare un Dio per non essere annegati, per dare da mangiare ad un paese che nemmeno li vuole.

La cerniera (reloaded per apice di disgusto)

Rifaccio a quasi pari cosa scritta e riscritta, ché c’è inutilità di nuovo verbo che l’ndato è ancora non a scadenza. Pure, pare, acquisti giovinezza. Bell’Italia – ormai – a(r)mate sponde, che qual puttana t’affascina di merletti e trini, di muscoli dorati e abbronzature UV, bell’Italia che reclami patrie e dei, financo famiglie a valori universali, che non mostrasti pudore per bimbi e donne e uomini che a costa antica di civiltà fanno morte per fame e sete e giù, in fondo al mare. E tu, Bell’Italia, che mi facesti passare pure voglia di scrittura a disgusto sopravvenuto, che per fortuna già scrissi. Abbellitaglia, sai che c’è? Ch’è meglio che non te lo dico.

“Me ne avvidi un giorno, uno solo per fortuna, come quel “c’era una volta” non additabile al tempo che fu, piuttosto all’unicità dell’accaduto. Ed era quel giorno che, dirimpetto al blu, m’ostinavo, sforzando gli occhi a ruga, a scrutare oltre la curvatura dell’orizzonte, sì come la vista potesse curvarsi per andare oltre quell’oltre. M’avvidi di come quella lastra appena screziata di schiuma, come l’ardesia si tinge del gesso, fosse la cerniera che unisce civiltà e deserti, caldi opprimenti e favole nordiche di ghiaccio, suburbie tormentate e foreste lussureggianti, umanità stanche e civiltà morenti, giovani con gli occhi della speranza e vecchie incurabili disperazioni.

Ma dubbio non ce n’era, era la scoperta dell’acqua calda, anzi, dell’acqua salata, che a questo serve il mare, a mettere insieme, congiungere. E se c’è qualcuno di supremo, ce l’ha messo davanti per questo. Pure, sono propenso a pensare che il supremo non vi sia, e che se è lì quella vertigine blu lo è per scelta sua, all’uopo, appunto. E a noi non rimane che prenderne atto giacché così è, per fortuna nostra, una volta tanto. Poi, è vero, si mette a giocare a rimpiattino con chi lo scruta, si nasconde una parte segreta e lontana, curva dietro l’angolo, s’appronta alla sorpresa, te la fa emergere di botto, fosse una cannoniera di Sua Maestà o la feluca di miserabili pescatori scalzi, la zattera d’un naufrago o la crocierona dell’inchino, fosse anche solo la bottiglia col messaggio di papiro con l’”Help me.. per favore, non venitemi a cercare che qua sto bene”, o lo Tsunami che si riprende il mal tolto. Modella gli scogli con trama d’artista, forse per vezzo, talvolta per rabbia d’incomprensione, s’accolla fatiche antiche e ne restituisce d’altre con interessi da compro oro a strozzo. Se decidi che lo percorri lambendone le propaggini più interiori, e lasci orme sulla spiaggia nella speranza del ritroso, s’avviluppa su se stesso, quindi si rialza e ti cancella il passaggio, in una notte che ingoia la luna oppure in un mezzogiorno di fuoco e scirocco, meglio di libeccio, quando pare si faccia asciugacapelli a risparmio energetico. Cerniera, sì, che unisce due lembi che si cercano, come anime perse, che si annusano, si scrutano, e come innamorati aspettano l’una la prima mossa dell’altro, oppure, nel viceversa dell’ammiccamento, manifestano la certezza dell’incontro. Cerniera che salda le attese, e non le rende vane, semmai ne amplifica il senso definitivo oltre il tempo, le mostra quali essenziali vertigini della giostra a scapicollo. Cerniera del vedo e non vedo, che ti lascia il senso della scoperta e dell’approdo indefinito nella terra – forse – promessa, certo ritrovata.”

Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza” (Leonardo Sciascia)

Radio Pirata 34 (per sopraggiunto disgusto)

Radio Pirata è a puntata di sostituzione di pensiero mio che s’affolla ma si rifiuta d’uscire a scoperta lettura. V’è tanto di orrendo che toglie forze e respiro, pure il quotidiano che è normalità pare concetto di normalità zoppa, a cospetto di follia cotanta che pare pazzo da catena chi non s’affastella a pensiero di normalità comune. Pure, forse, risultai pazzo anch’io che per sfinimento non parlo oggi, forse domani, ma lascio sempre spazio a giovani collaboratori che si fanno a manifesto per farsi ossa in territorio viscido di comunicazione. Io metto musica che faccio radio di servizio.

Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia”. (Leonardo Sciascia)

Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso. L’assassinio è quindi il tentativo di raddrizzare la follia di questa falsa percezione con una follia ancora maggiore: ciò che non è stato visto come uomo, eppure lo è, viene trasformato in cosa, perché non possa confutare, con un movimento, lo sguardo del pazzo”. (Theodor Adorno)

Che a sottrazione di luttuoso lutto si disvelano le file, quali processionarie, a sguardo a sorriso spento ed occhio a nulla estatico, di corsa ad accaparramento che non c’è domani… “con la massa degli oggetti cresce… il regno degli enti estranei a cui l’uomo è soggiogato. È lo stadio supremo di un’espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. Il bisogno di denaro è quindi l’unico bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che esso produca“. (Guy Debord)

Radio Pirata 4 (on the road)

A grande richiesta, che ci ho la fila sotto casa per gli autografi, riappronto una puntatella di Radio, che ormai ci divenni avvezzo come non più. Ci dò subito di musica che la radio a questo serve.

Pure mi dilungo poco a chiacchiera che è fine settimana e ci ho scorte sufficienti a beveraggio da conforto per morale della truppa, che quella sempre necessita di beni di sussistenza ch’io faccio esercito mononucleare e ad arsenale vuoto m’attrezzo a contrapposto di cambuse dignitose. Che se poi la guerra scoppia io sono pronto ad arrocco, meglio a diserzione. Che, sempre per delizia di truppa, vi mando cosa che Zio ce l’abbia in gloria.

Che non viaggiai abbastanza per conoscere il mondo, nemmeno per sfiorarne approccio ampio, ma mi mossi ad occhi aperti, che m’avvidi che comunque esiste e di curiosità mi feci virtù, pure se m’attaccai quale cozza a scoglio tutte le volte che potei.

… “In una notte, o in un giorno,

In una visione, o in nessuna,

È quindi il meno andato?

Tutto ciò che vediamo o sembriamo

Non è che un sogno dentro un sogno. ” (Edgar Allan Poe)

In viaggio o stanziale, sessile quale anemone di mare, o a vela di sfilaccia a favor di vento, m’accorsi però che serve musica, a svago e ristoro d’anima, quale parentesi tra silenzio e silenzio.

Che mi venne spesso desiderio di spazi aperti e sconfinati, che l’orizzonte è dato a chi ha sguardo aperto ad oltre, che oltre quell’oltre capita che ci troviamo pure noi, non è detto che è fine del mondo che ci si riscopra altrove ed altri da noi medesimi. Che poi “si dice che ogni uomo deve scoprire qualcosa che giustifica la sua vita.” (Luis Sepulveda) E se ci abbiamo voglia, ma anche bottiglia e musica buona, la scoperta è a passo da lì, solo che taluni non rubino orizzonti per desiderio d’appropriazione indebita, che facciano muro, che d’altro non capiscono.

M’addivengo a fine di trasmissione, che di saluto non sarò mai parco, nemmeno d’invito a libagione e musica, che è cosa quella che m’appartiene di liturgia, pure, che ormai godo di fama universale, mi faccio trampolino di lancio per tali che si faranno, che mi pare abbiano talento, che taluni li citai sopra per dare loro opportunità di conoscenza ai più dalle mie pagine. D’ultimo me ne riserbo altro, che pure lui mi pare abbia stoffa, che si farà, se si impegna con le parole. Ve lo lascio dopo la musica, che ve lo leggete con calma.

Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche leggerezza, che sa essere leggera, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità.” (Leonardo Sciascia)