La bellezza sepolta
La bellezza non è per tutti, pure se tutti dovrebbero pascersene, ma non è per tutti. E se l’arte t’attrezza ad arrivarci, manco l’arte è per tutti. Che v’è un mondo che ne è stato privato ex legis. Ci andate alle prime, voi? La percezione, quella che ti sta sotto la pelle come friccicorio pruriginoso, l’avevo già da un pezzo, le clausure (a)sociali tra quattro mura me ne hanno, al più, fatto il gentile omaggio della conferma, consegnato il responso diagnostico. Non è per tutti perché v’è stata, nel tempo, la consuetudine a nasconderla, la coazione a ripetere del celarla allo sguardo, che alla fine funziona. Poiché non interessa quello che non conosci, dunque, seppure la bellezza esiste, non è detto che tu la conosca. Nessuno t’obbliga ad accostarti a quello che non hai mai visto: della luna te ne viene meno la curiosità, se al suo posto t’hanno mostrato il pozzo dov’è caduta.
La bellezza è per i salotti buoni, li ce ne trovi un artefatto sintetico, quanto meno il passaporto (in)sanitario per farci un salto dentro, qualora te ne venisse voglia. Poi, mi pare, che lasciarne al salotto buono l’esclusiva sia una bella mossa per chi se l’è inventata. È così che rifanno le città, le riarticolano purché non si veda la bellezza intorno, nemmeno quella che c’è nelle loro viscere, nelle fondamenta. Sono prodotti ideologici, con cenni manifesti di patologie delicatissime, acute, gravi. Hanno solo vie d’uscita verso il consumo, vie di fuga murate, orizzonti occlusi. Le periferie di Suburbia sono anaidentitarie rispetto ad alfabeti evoluti d’umanità, coazioni a ripetere di costruzione di protoidentità subumane, cittadelle fortificate distese sul magma sconfitto della prospettiva creativa. Sono escrescenze ectoplasmiche che tendono a ricongiungersi, occupando i luoghi vitali che vi si inframezzano, procedendo con contaminazioni psicotiche di riqualificazioni architettoniche, per spazi capitalistici d’interdizione. L’architettura è l’alibi demiurgico per la creazione di un sistema sociale verticistico, che impone allontanamento ed esclusione. Produce l’atomizzazione dei sistemi di relazione e della comunicazione sociale. La frammentazione sociale rende il disagio non più collettivo, ma questione personale, esalta l’individuo anche nella sua condizione di malessere profondo, ne disvela le contraddizioni e le ambiguità come non patologiche, piuttosto banali effetti collaterali necessari. La percezione della propria malattia svanisce nella barbarie e nel rifiuto – per non accettazione, neppure conoscenza – delle forme più elementari d’articolazione del pensiero divergente dal dogma. La bellezza semplicemente non esiste più poiché non esiste più il progetto creativo, mentale, naturale, che la interpreta e la genera, pure a partire dalla sofferenza. Non esiste più poiché è forma relazionale pura e aggregativa.









Il salotto buono ne mantiene per sé brandelli funerari, esposti nel proprio spazio vitale. Si cinge del recinto protettivo dell’immensità periferica, e si nutre del totem dell’economia circolare, i cui rifiuti – che non esistono per dogma concepito da chi li produce, come nelle sacre scritture – si ammassano sotto i tappeti di Hyperpolis, provocando la mostruosa ed aberrante adesione postculturale al consumo felice e responsabile.
Il sistema è perfetto, non c’è complotto, non c’è regia, è il corpo che si autoinvolve in una direzione specifica, con le proprie staminali che rigenerano i tessuti cancellando la memoria di ciò che era. Risolve le sue patologie inglobandole, rendendole sistemiche, financo le trasforma in cura per la stessa malattia.








Ma scappa, talora, che qualcuno s’accorge d’essere malato, qualcuno che s’è fissato ch’esiste la bellezza, e se gliene precludi la vista se ne sta a cercarla in tondo, scansando il resto. Se non la trova, ma pure la cerca, si mette a frequentare il piccolo mondo antico di chi fa la stessa cosa, fa banda di pazzi con quello, si mette ad armeggiare con cose delicate, riannoda il cerchio spezzato, magari ne parla, rischia il contagio. E così s’avvede che il punto di vista è irrilevante. Ciò che è oggettivo non è opinabile, è soltanto tale e quale a se stesso. Scopre che il progetto circolare non ha solo una tangente, certo non solo in quel punto dov’è la prospettiva obliqua, angolare, bugiarda, il quid verso l’orbita scontata. Che quella è solo l’opinione diffusa, anche il punto d’accumulo orribilmente affollato. Solo l’ultima traccia dell’obbligo di tenere la destra o cosa volete che sia un po’ di coda al casello, al cestello, al carrello.
Roba da far gridare allo scandalo: in un momento come questo, mettersi a cercare la bellezza. Roba che nei salotti buoni sobbalzano, pure non hanno il vaccino, se quel male dilaga.