Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.
“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.
A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.
Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)
Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.
Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.
Che m’accingo a 8 Marzo che poi non m’è dato a sapere se ce la faccio. Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.
E faccio a recupero d’omaggio per donna che lottò per suoi diritti, non si fece a sgomito per arrivo prima io ad imitazione esatta di maschio coatto e basta. Oggi tale donna è a farsi morto d’ammazzo e d’annego, scioglie suoi capelli come fosse atto eversivo e a chioma sciolta insegnò a tutti – soprattutto a noi maschietti – significato esatto di rivoluzione, che non fu comando io, fu non comanda nessuno.
Le donne dei “Fasci”
Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.
“Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.
Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.
Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)
Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.
Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.
Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.
I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.
Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.
Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….
Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.”
Maria Occhipinti
Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.
“Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…
San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…
Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!
VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!
L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)
Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.
Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.”
Franca Viola
A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.
Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.
“Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.
La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.
Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.”
E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.
Radio Pirata fa grande traguardo di puntata numero Cinquanta che s’appresta a festeggiamento per giusta causa d’esistenza lunga e prolungata, musicante e scrosciante d’applauso a scena aperta e augurio collettivo di altre mille e anta pure di più puntatona di scoppiettanza. A festeggiamento c’è invitato lussuoso a numero elevatissimo – ma con turno preciso a gruppo di meno d’un certo per evito adunata sediziosa a precisione di decreto per rave – con red carpet che ognuno se lo porta da casa che Radio è di profilo basso per modestia ma al contempo elevatissimo d’oggettivo, che pare tutto e suo contrario con sommo gaudio di spargimento di confusione. Che subito si parte a musica giusta che mai fu di tal portata più giusta.
Ma Radio non rinuncia a far anche cosa di cronaca come si compete ad organo d’informazione di superba qualità. Che notizia pare ormai acclarata che Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra è ormai a cosa acclarata che ha candidato di segreteria in numero esatto di suoi iscritti che se accordo non si trova si va a ballottaggio fra tutti per risultato di uno a uno a uno a uno a uno a uno (ad libitum ma non troppo). Ora c’è pressing che almeno qualcuno si astiene, tal altro non si concede voto a sé che vota un altro che almeno si fa due a uno e palla al centro, anzi, a destra.
Continua lunga e diritta correva la rotta che non si fa a sbarco per fugaiolo da morte e miserabile esistenza a porto salvo più di prossimità per rifocillo e riposo, ma si sceglie porto a lontananza estrema che tanto prima o poi s’arriva a mal di mare fitto fitto che la pacchia è finita e corsa di taxi marino costa di più.
Meglio pure se porto è ad accoglienza con pugno chiuso e Bella Ciao e concerto di Inti Illimani che, però, a far scandaglio di tale porto, pare che quello non c’è, che a far tale accoglienza non se ne fece cosa di massa che c’è impegno altro di tutti a tale opzione politica a far candidato a Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra.
E c’è pure guerra che si fa sempre più a bombarda che c’è ressa a partecipo anch’io a mando bombarda di produzione sovrana che è grande pubblicità a fabbrica d’orgoglio di nazione ad altissimo grado di civiltà. Che tale ressa pare a chi ha bombarda e bomba più grossa che a furor di merito è tutto a espressione per dotazione migliore che grande consesso d’alleanza militare pare studentato d’adolescente per misura di orpello intragambale a maggiore gittata.
Radio riporta notizia che paese di Samba, per sgambata fine settimanale e palla a rotolo con virtuosismo per rete gonfia, pare ora roba d’assedio per grande timore di democrazia verde Oro fatto da brave persone di ieri ed ora non c’è accordo su loro esistenza. A fatto che s’ode ad altro emisfero squillo di tromba si risponde con tafferuglio di tifosume a blocco d’autostrada per ore ed ore per taglio in due di paese intero e coda di disperazione di bimbo che piange e vecchietto a mancanza di conforto di toilette per prostata in disarmo ed incontinenza a mancanza di rispetto per liturgia domenicale di Sisal. Però palla rotola ancora che The Show Must Go On.
E per fare grande augurio a se medesima Radio dedica a se stessa come mazzolin di fiori bella palazzescata giusta ed ancora fa augurio che anno nuovo sia anno con grande felicità a malgrado di accise ipertrofica.
MAR GRIGIO
“Io guardo estasiato quel mare, immobile mare uguale. Non onda, non soffio che l’acqua ne increspi, non aura vi spira. Di sopra lo cuopre un ciel grigio bassissimo, intenso, perenne. Io guardo estasiato tal mare. Non nave, non vela, non ala, soltanto egli sembra un’immensa lamiera d’argento brunastro. Su desso si mostra coperto ogni astro. Il sole si mette una benda di lutto, la luna un vel grigio, le innumeri stelle lo guardano tenendo un pochino socchiuso il lor occhio vivace. Io guardo estasiato tal mare! Ma quale fu l’acqua ad empirlo? Dai monti sgorgò? Dalla terra? Dal cielo essa cadde? O cadde piuttosto dagli occhi del mondo? Mar grigio siccome una lastra d’argento brunastro, immobile e solo, uguale, ti guardo estasiato! Ma c’è questo mare ma c’è? Sicuro che c’è! Io solo lo vedo, io solo mi posso indugiare a guardarlo, tessuta ò la vela io stesso: la prima a solcarlo.”
Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte.
Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione.
Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo.
Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.
“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.
A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.
Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)
Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.
Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.
Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.
Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.
Leonie Adler (Unica) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.
Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile. Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk. È anche membro dell’associazione artistica GAAL.
Pamela Vindigni, siciliana di Modica (RG), è artista di tecnica raffinata, frutto di studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e di una vasta attività esperienziale. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, esplorando, oltre alla pittura ed alla scultura, altri linguaggi espressivi ed esibendosi quale attrice e performer. La sua visione dell’arte è sociale, solidaristica, non prescinde mai dal rapporto dialettico con altre forme del linguaggio e della comunicazione. Questi tratti fondanti la sua pratica l’hanno indotta a fondare, nel 2017, il gruppo “Artisti Associati – Matt’Officina”, impegnato nella riqualificazione dell’ex mattatoio comunale di Modica e divenuto un laboratorio artistico polivalente, un luogo di produzione collettiva e creativa oltre che di accoglienza d’esperienze.
Le sue sculture riscoprono la natura primigenia del corpo, lo denudano delle sovrastrutture, lo spogliano dell’effimero, lasciano che si esprima quale strumento di comunicazione essenziale. Alcuni suoi volti, scarni d’espressione, pare leggano negli accadimenti una sostanziale disumanizzazione. Pamela Vindigni, quando si concentra sulle forme delle donne, le libera da costrizioni, da stereotipi arcaici. Rappresenta la maternità con ironia, sottolineando al contempo una specificità di genere e smantellando la subcultura patriarcale che relega le donne al ruolo esclusivo e subalterno di madre e moglie. La leggerezza con cui ci rende la gravidanza non è, dunque, solo la rappresentazione prossima del parto quale passaggio funzionale alla procreazione, alla conservazione della specie, cui deve seguire la gabbia totalizzante della cura parentale, ma diviene, anche e soprattutto, metafora di concepimenti, elaborazioni, pratiche creative ed irrinunciabili, di idee, progetti, riscritture sociali e politiche. L’opera di Pamela è, in effetti, “politica”, non nel senso deteriore che oramai s’attribuisce al termine, ma in quello che ne recupera il significato etimologicamente più puro e profondo, dal concetto di Polis, il contenitore per eccellenza del desiderio di partecipazione. È pratica che aderisce ai processi sociali, alle vicende comuni, li legge, intende rideterminarli anche, con consapevolezza d’analisi, abilità d’usare strumenti espressivi plurimi e mai scontati, volontà di esserci con la propria identità di genere, di persona, d’artista.
“Esiste una specie di morti viventi, di gente banale che a malapena ha coscienza di esistere se non nell’esercizio di qualche occupazione convenzionale. Portateli in campagna o imbarcateli su una nave e vedrete quanto si struggeranno di nostalgia per il lavoro o il loro studio. Non sono mossi da curiosità, non sanno abbandonarsi alle sollecitazioni del caso, non provano piacere nel mero esercizio delle loro facoltà, e, a meno che la necessità non li incalzi minacciandoli con un bastone, non muoveranno un dito. Non vale la pena di parlare con gente simile: sono incapaci di abbandonarsi alla pigrizia, la loro natura non è abbastanza generosa; e trascorrono in una specie di coma le ore che non sono applicate a una frenetica furia di arricchirsi.” (Robert Louis Stevenson)
Il mare frenesie non ne vuole, pretende attese. La lampara che corre lungo la costa di notte è capace di rimanere senza una sardina per gran parte del tempo. Poi, a che la pesca pare finita, si riempie di seppie. Quindi l’attesa non fu mai tempo perso, che quella va impiegata bene, non può essere giocata come fatto inutile.
E nell’attesa si consuma la consapevolezza che qualcosa è ad accadimento, pure se non è certo, dietro l’onda ci sta che c’è. Pare, l’attesa, messa lì a bella posta a riflessione sul tutto, che è vuoto che si può riempire. Il pieno a colmo di spazio e di tempo è già finito, non va oltre ciò che è stato, non accetta evoluzioni altre. Il vuoto è desiderio, è sorpresa di scoperta per ogni cosa possa colmarlo un poco. È insegnamento di mare questo, che mare è immenso vuoto a certe ore, tanto che non se ne vede confine autentico. Ma è pieno d’ogni attesa, pieno d’ogni ricchezza solo se ne voglia prendere quello che ci tocca. E ci tocca quello che siamo riusciti ad aspettare, che non ci venne a sottrazione d’impazienza. Forse nemmeno arriva altro che quella vista, che è già tutto, pure gratis, non si paga niente per vederla.
Che è tempo che si compiange il morto, che da vivo era a colpo di obice. Ch’era bello se c’era lui, ma quando c’era lui era meglio a fa bersaglio per sparo ad alzo uomo, a sbuff di noia. E pure io faccio necrologio ma non d’anniversario, necrologio a come viene, ad omaggio del tempo che fu, di chi fu e non si accorse nessuno che fu. Che comincio che vado prima di musica che di secondo ci ho ricordo gustoso a contorno di nostalgie che il tempo fu.
E comincio da Cisco, ch’ebbe a batter ferro prima che la mezza ettolitrata di vino che consumò ad ogni pasto, ma pure tra l’uno e l’altro, non gli facesse soppiantare materialità enologiche con polvere diffuse a grotta di ladroni a piede di vulcano autentico – ch’egli fu maestro di forgia ad incandescenza – pure in fiume da risciacquo di lingua patria, come da volontà sua. Ch’egli scolpi a sublime gatti per teatro di Shakespeare ed ogni altra opera di maestria, ma mai adorò lavoro, pure ne rifuggì orripilato ad ogni suo ripresentarsi.
Il Cisco, che gliela feci io la foto giusta
Che casa sua era a porta aperta, pure finestra fu tale, che c’era da bere e da mangiare per conosciuto e sconosciuto a bisogna di trangugio per fame conclamata. Che mai chiese a che d’uopo si presentava taluno, ch’egli provvide a sfamarlo e pure a dissetarlo, giammai d’acqua, che a quattro carponi era d’abbisogna che si lasciasse casa.
Pure ho memoria di Tano, che si fece a sindacato di barricata, ch’egli, a fondo di pantaloni consunto per calcio in culo di celerino od ogni altra bestia nera, s’era immolato di campi in campi, a schiena ricurva, che ad incontrarlo ci scappava pezzo di cacio e bicchiere di vino a sopra muretto, che bastava a uno smunto come egli, ma a egli uno che mangiava solo non piaceva. Ch’egli disse, a riso di stolto che a scherno ne guardava passeggio sbilenco, che ad abolizione di scala mobile che volle mammasantissima primo fra ogni mammasantissima, per sostituzione ch’ebbe a nominare democrazia di concertazione, c’era ad orizzonte bobo nero a doppio petto blu (manco di coraggio di nero) a bottoname a d’oro, che contratto avrebbe messo a congelatore, solo incentivo per acquisto di corda per nodo scorsoio a luogo di cravatta buona di domenica a messa.
Che tutti ridono di povero Tano che parlava e straparlava, ch’ebbero paura di sua ragione che diceva che sfrutto d’uomo era d’uomo che a mercato nero aveva riciclato quota sua d’anima d’umanità. Che diceva s’io zappo terra questa è terra di tutti, non di padrone, nemmanco di chi la zappa, ma di chi abbisogna di suo frutto. E quando Tano si fece a torno a terra zappata a vita, per nazionale senza filtro con bollo di monopolio di stato, non fu verso di lacrima che di pochi, che paura mondo ebbe di volgere sguardo a sua imperitura ragione.
A ricordo commosso vado a Tano che sondò abisso a cerca di sarda, che manco trovò più tonno che prima faceva a tavola gonfia per sua famiglia, ma pure per vicinato intero che non aveva manco tovaglia su tavola, forse manco sedia che non fosse cassetta a legno di mercato esausta. Che ruga di sale fu via per lacrima di fatica che divenne goccia di mare e ancora vaga con suo codice genetico di viaggio infinito, d’orizzonte ad orizzonte.
Ch’egli si fece a tappeto per bastonata contro mammasantissima e potentissimo a peschereccio di surgelo a pesca a strascico e palamitara lunga mille mila miglia, che succhiò ogni bestia che dava a mangio a famiglia e vicinato, per pregiato menù di ristorante a collezione di stelle di tutto firmamento, che primo e secondo costa quanto tutta la barca ed attrezzo di Tano. Che a Tano, d’artrite quasi paralitico, fu bufera che lo portò via, bufera di disperazione sua, abbraccio di mare che volle suo figlio a canto suo, a privo di fatica, finalmente.
Infine memoria spendo per Maria, che di nulla tenere fece a nulla temere, che si lanciò sotto camionette di rastrellamento di proscrizione a far partire giovane a morire, ch’era scampato già a guerra. E quello gli fecero pagare a carcere pesante ed a chiusura a vigilanza di monaca, per stento infinito, a parto ed allevo figlia sua a quattro mura a freddo, ma mai smise a grido di non si parte che la guerra la fanno i potenti fra di loro, ma col sangue dei poveri cristi che già sangue n’hanno poco e pure sfatto di privazione.
A tutti questi dedico memoria che sono rappresentanti d’umanità perdute che non ebbero ad apparire a ricordo di giornalettume, che, almeno di questo, morte gli fece dono di risparmio. E forse un po’ anche a me, mi faccio dedica ad ancora vivo.
Che m’accingo a 8 Marzo, prima del tempo, che poi non m’è dato a sapere se ce la faccio. Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.
Non mi stupisco che più non ho stupore, che non ve n’è notizia di presa di canali a rete unificata, che d’altro che sa di bomba c’è da discutere, che la bomba la sgancia uomo, non m’avvedo che tante ne sganciarono donne. Che poi a ministro e primo ministro non è dato d’occuparsi di cosa banale, con espressione a fuga e distanza da cosa avvenuta in sotto silenzio, che al più s’interviene su bimbi a manganello per protesta di morte di lor pari, che si grida all’infiltro ed è scandalo che non fu di ialuronico a gonfiare bocche a canotto. Che pare ci fu errore a forma di sequestro, e casa, a dedica a immensa mamma Felicia, torna a famiglia di boss, che tutto tace. E m’assommo di chieder scusa io, che essendo nessuno ho tempo e modo, non m’occupo di tutto pieno ad arsenale. Lo faccio come m’aggrada, che non metto mimosa ma ogni fiore, e ricordo d’altre donne pure sepolte d’oblio. Mamma Felicia sarebbe assai contenta che di suo sorriso ho memoria zeppa. Ma pure ad altre donne faccio omaggio, che mi critico a genere senza rimorsi.
Le donne dei “Fasci”
Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.
“Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.
Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.
Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)
Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.
Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.
Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.
I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.
Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.
Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….
Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.”
Maria Occhipinti
Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.
“Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…
San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…
Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!
VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!
L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)
Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.
Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.”
Franca Viola
A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.
Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.
“Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.
La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.
Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.”
E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.
Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione.
Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo.
"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." - Maya Angelou
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