Dipartenza a tempo parziale e poco (si spera)

E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.

Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.

Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.

Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.

Isole insulari

E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Isole insulari

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da qui, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Fuggire per fuggire

La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia. Una Prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù” (Forse Aldous Leonard Huxley)

Che a manco d’aria mi spinge desiderio di fuga, che non fu fuga dietro l’angolo quella che mi venne a mente, piuttosto ricerca d’orizzonti per infinito desiderio che non ebbero mura di prigione, deserti innevati o caldi a macero, rose di Atacama, oceani di fiere, isole selvagge, sentieri di capra. Mi farei volentieri Argonauta per investire velli d’oro in buoni fruttiferi a far falò di carta a risparmio d’energia, cercare cere per ali d’Icaro, scendere a patti con unicorni da autostop su nuvole basse che soffro di vertigini. Mi venne desiderio improvviso ed irrefrenabile di fuga di cervello, a lasciar porte aperte al mio non esiterei, che vaghi pure. Ma forse mi farei, a contentezza, solo miserabile fuga a bettola da sganghero a porto perduto, per non centellinarmi vino, nemmeno mi dispiacerebbe spiaggia o scoglio di altra isola qual che sia, purché non vi sia altro che l’isola stessa.

Mi venne desiderio inesausto di farmi vacanze in permanenza, lasciare che le flotte avverse s’incrocino da sole, per conquista di potere che io non ne feci richiesta. Che non v’è conquista in annullo di competizione, c’è solo arrovello di competizione con nulla, che io non volli, fortissimamente non volli, esser parte di quel nulla, ma me ne scelsi altro, proprio a desiderio d’alterità, a desiderio di scusate non partecipo, ho fuga da fare che mi parve di maggior impellenza. Mi venne, altresì, desiderio d’argomento futile, di scherzo a celia, di sasso a stagno, di spilucco d’uva e cacio a scaglia, bicchiere sempiterno, sigaretta accesa a distrazione meccanica a fronte d’un sole che tramonta, poesia da lettura, pure un verso si, altro aspetta, che non se ne fece cruccio d’attesa. Mi venne voglia d’una canzone, che a non ricordarmi quale non mi fu d’angoscia che di tante ne ho a memoria che non mi mancò piacere d’ascolto. Tutto ciò mi venne a desiderio, pure altro. Ma prima vi regalo versi:

“Il poeta è un operaio

Gridano al poeta:
“Davanti a un tornio ti vorremmo vedere!
Cosa sono i versi? Parole inutili!
Certo che per lavorare fai il sordo”.
A noi, forse, il lavoro
più d’ogni altra occupazione sta a cuore.
Sono anch’io una fabbrica.
E se mi mancano le ciminiere,
forse, senza di esse,
ci vuole ancor più coraggio.
Lo so: voi non amate le frasi oziose.
Quando tagliate del legno, è per farne dei ciocchi.
E noi, non siamo forse degli ebanisti?
Il legno delle teste dure noi intagliamo.
Certo, la pesca è cosa rispettabile.
Tirare le reti, e nelle reti storioni, forse!
Ma il lavoro del poeta non è da meno:
è pesca d’uomini, non di pesci.
Fatica enorme è bruciare agli altiforni,
temprare i metalli sibilanti.
Ma chi oserà chiamarci pigri?
Noi limiamo i cervelli
con la nostra lingua affilata.
Chi è superiore: il poeta o il tecnico
che porta gli uomini a vantaggi pratici?
Sono uguali. I cuori sono anche motori.
L’anima è un’abile forza motrice.
Siamo uguali. Compagni d’una massa operaia.
Proletari di corpo e di spirito.
Soltanto uniti abbelliremo l’universo,
l’avvieremo a tempo di marcia.
Contro la marea di parole innalziamo una diga.
All’opera! Al lavoro nuovo e vivo!
E gli oziosi oratori, al mulino! Ai mugnai!
Che l’acqua dei loro discorsi
faccia girare le macine.
” (Vladimir Majakovskij)

Un posto dentro

“Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati.” (Antonio Tabucchi)

Ci sono luoghi che sono talmente tanto, che è difficile evitare che strabordino. Diventano un nostro dentro, si fanno storia, mito, leggenda, narrazione. Ci sono luoghi che sono Porto d’Ulisse, che tale divenne quale Porto Salvo per ogni barca che a sganghero fece prova di forza con tempesta e fortunale, terra dei Lotofagi, che di bellezza produsse dimenticanza d’ogni altro, antro dei Ciclopi, di impervia natura e sasso sparso che parve oggetto di lancio, scoglio di Sirena, che trasuda musica nel vento, melodia nelle onde. Ne conosco uno che s’è fatto tutto questo, e mi capita di farvi ritorno, meglio, mi capita di ricongiungere la sua essenza materiale con la sua storia, quella che mi porto dentro. Pare come ritrovarsi, pare questo che succede, come darsi appuntamento in un tempo sfalsato. Ed il dettaglio che si manifesta è quello di sogno esatto, non si concede deroghe al riproporsi di precisione interiore ed esteriore, neppure pare distinguere il confine dell’uno di dentro con l’altro di fuori: coincidono, tutto qui. Eppure v’è sempre sorpresa, che v’è scetticismo nel pensarsi vettore di cose viste e cangianti in permanenza.

Non se ne prende atto a razionalità che non v’è razionalità in un incontro che avviene in ogni istante, pure a mille mila anni o chilometri di distanza, che pare non vi sia più necessità di distinzione tra un sasso, un’onda di risacca, corde dell’anima. Così si riproduce un mistero che è tale solo per chi lo ritiene tale, che non accetta che la scoperta è già fatta a solo desiderio di riprendersene la vertiginosa sorpresa. Poi non c’è necessità di parola a descrizione di certi luoghi, questi sono già narrazione di se stessi e di noi al cospetto loro. Noi e loro, loro e noi. L’uno esiste poiché l’altro esiste. C’è mancanza di fantasia, di comprensione di quella sintesi perfetta di luogo materiale e della sua essenza che ci alberga dentro, nella logica di taluni che non hanno spazio se non per sé. Furono a tale semplicità che dimenticarono riscaldamento acceso e freezer aperto, a scioglimento di ghiaccio per consunzione lenta e dolorosa della mia isola, che presto sarà solo dentro me e di pochi altri che ne hanno cura per consapevolezza di memoria.

A questi dico che non c’è cancellazione definitiva, per chi ha posto dentro, e che l’abisso che inghiotte avrà cura anch’egli dell’essenza che non muore, ne assicura protezione. Non ci sarà protezione di ricordo per le loro baleniere, per le loro portatrici di bombarda, solo destino d’oblio. A quei poveri vuoti a perdere dico solo che è ad apparenza e basta che hanno vinto.

Solo un’isola

Nacqui su un’isola talmente piccola che per girarmela tutta mi bastava poco. Ma mai mi venne d’annoiarmi a far perimetri e perimetri. Pure, se m’allontanavo per altra terra, cascavo comunque su un’isola, grande per come ti pare, ma sempre isola era. Un’isola, più è piccola più sa d’infinito, più si fa centro di mondo intero, che tutto ciò che ti circonda è infinito, dunque, qualunque cosa è dentro quello sconfino, non può che esservi centro, è a sguardo d’infinito a destra e manca, a destra e manca di dove ti giri. Che dunque sarei a destino centro d’universo d’abisso? Che tale evidenza di vertigine mi fece nessuno che non ho altro da riportare che uno sguardo a ciò che non conosco.

Che quello sguardo mi rimase inesausto, non me ne venne a conoscenza mai di cosa è oltre l’orizzonte, tanto v’andai incontro, tanto quello si spostò. Mi feci ragione di ignoranza, pure mi feci ragione che quella era passione autentica di conoscenza. Mi faccio isola e m’esploro quello che mi viene, né mai mi parve d’aver finito, manco m’attrezzai a star fermo di pensiero pure quando mi depositai come delfino spiaggiato ancora su un’altra isola. Ma sono isola io, forse, che chi nasce isola non se n’avvede che è tale anch’egli, si porta uno scoglio dentro, a mare d’infinito ed infinito d’orizzonte, sia che lanci sguardo a destra, sia che lo fermi a manca.

Quale voce giunge sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E’ la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
perché si è ascoltato.

E solo se, mezzo addormentati,
senza sapere di udire, udiamo,
essa ci dice la speranza
cui, come un bambino
dormiente, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno sito,
ove il Re dimora aspettando.
Ma, se ci andiamo svegliando,
tace la voce, e c’è solo il mare.
” (Fernando Pessoa, “Le isole fortunate”)

Ho perso un’isola

La stessa civiltà che dovrebbe renderci più indipendenti e più liberi, ci costringe a una schiavitù di atti e di pensieri di cui non ci rendiamo mai conto.” (Luigi Capuana)

Che c’è siccità a cottimo, che non piove nemmeno a sputacchio, e governissimo di migliori propone PNRR – che non è suono d’acronimo onomatopeico d’accompagno a gesto d’ombrello– a boccata d’ossigeno esausta, che pare colpo di sensibilità sublime a vertigine. Roba che merita applauso a standing ovation, pure genuflessione a senza remora per acume a vetta elevatissima. Mi sa che vado a musica.

Che se talaltro s’ostina a bomba, pazienza, se però pretende l’io pago con banconota di Monopoli a cambio di carburo di SUV, noi che fulgore fummo di mondo intero, passiamo a carbone e taglio di legna, che pare facciamo noi bomba, ma non d’acqua, a cambio climatico già a conclave. E se vil uomo nero, a lamentoso fuggir per gengie atrofiche e guerra dimentica, s’appresenta a lido nostro, a scusa di martirio per secco pure di ficodindia, ci abbiamo pronta Durlindana a decapito rapido.

Allarmi allarmi ca la campana sona

li turchi su arrivati alla marina

cu iavi li scarpi si li sola

ca iu mi li sulai a stamatina

Che già signora avveduta, che s’era posta ad accoglienza seria di profugo giusto di colore uno, a recapito di colore due, oppose a giusto lo gran rifiuto ad ospito io. Che bene fece che foto a faccialibro viene male a contrasto cromatico d’errore.

Che l’isola mia ad orizzonte sempre vivida, che misi pure a cima di mio blog, per mare che s’alza è ormai persa a vista, solo secca e sparuta ci sbatti a chiglia di barca.

Pure ciottolo a letto di fiume ha sete, mi disse egli stesso che con me parla, e di grande manifestazione per danza di pioggia di settimana che andò a partecipo anche io, mi chiese. Che io c’ero ma non c’era traccia ad altro, che c’era tempo di lutto per cacciata da campo verde di pallone ad irrigazione a goccia, che giornalaio d’alta sfera non ha tempo quale vuoto a perdere per sciocchezza che non piove, che è notizia di pessimismo che non fa Euro manco a venderla a contrabbando. Che prossima guerra è per acqua, che indio non s’accomoda d’altra parte, dice è casa mia, non capisce ch’è selvaggio e pure di colore sbagliato.

Ora esco ad ombrello sotto braccio, che forse faccio diciassette a iella, e giovanissimi lieti di primavera, a tutina d’attillo e orecchia tappata per musica bum bum, pure meno giovani ad abito a fiore finto per compera a fila di cassa, fanno doccia a gratis in corsa ad auto distanziata per parcheggio tuttopieno come sciacquone di WC.

E io pago!

Scopro cose nuove ed interessanti, tipo che c’è che posso dettare al PC quello che deve scrivere, pure metterci punti e virgole a comando, che non m’affatico occhi provati a DAD. Certo non ho contezza che tutto scorra giusto, ma chiedo venia se taluno legge, che potrebbe scapparci refuso a bizzeffe. Ma, al limite, vi sciroppate musica senza orrori ortografici. Vi spiattello subito una cosarella da far partire, che vi da cenno di svago superiore.

Mi confesso a pubblico che di geografia non sono edotto, oltre quel che, a tempo andato, si appellava quale cultura generale. Dunque, dell’Islanda so che è paese lontano, terra fiammeggiante che cavalca dorsali. Pure assai freddo, che ciò, per me che non sono africano solo per convenzione amministrativa, m’appare cosa disdicevole. So, per memoria recente, di vulcani che s’infervorano a cenere, ma anche di tempeste bancarie. Insomma, a parte il vulcano che potrebbe essermi familiare, come la natura isolana, per il resto mi pare che punti di contatto con l’Islanda, per me, pigramente stanziale, non ve n’è a iosa.

Però, m’arriva notizia (che mi faccio leggere all’uopo dal lettore nascosto nel PC, pure tradotta) di cosa che mi sconfinfera. Con voce professionale, il tale ignoto mi narra che di adolescenti adusi a fumarsi anche piedi di tavolini e lische di pesce, nonché a bersi financo gasolio, da quelle parti s’abbondava sino a quattro lustri fa. Non passa il ventennio che si passa da un buon 23% di imberbi fumatori al 3%, di giovani bevitori indefessi dal 48% al 5%. Che è cosa che stimola curiosità scientifiche, pure se è vero che di pubblicità a sigarette e a spiriti ad alta gradazione s’era fatto bando. Che lo scienziato capisce, pure se mezza tacca, – che non faccio nomi a comparazione di latitudini nostrane – che esistono pletore di sostanze a condizionare talune dipendenze e, come s’approccia il gatto alla lettiera, s’adagiano a comodo sullo stress. Dunque, si dice, se levo stress con altre biochimiche a coprir le prime, magari smetto di intabaccarmi e di bermi a distillato anche il fegato di merluzzo, che, secondo me, lì pure abbonda. E allora lo stato che fa, dopo aver trattato finanziarie a foglio di via per bancarotta procurata, si dePILa le multinazionali, mettendosi a concorrenza sleale. Si mette a pagare corsi di danza, pittura, musica, e cose così per tre mesi solo a mo’ di prova, che il giovane virgulto poi sceglie se continuare, pure gratis et amore dei – cosa che puntualmente avviene, mediamente per cinque anni ancora – lasciando sigarette e gin ai più evoluti coetanei d’altre parti. Ma vi pare che una cosa così è corretta? Che si attenta al PIL in siffatto modo scorretto, pure con la slealtà di mercato drogato a finanziamento pubblico? Che se tutti i paesi facessero così, cosa ne sarebbe del nostro stile di vita? C’è da farsi tremare le vene ai polsi. Che poi lo so come va a finire, che uno si mette a fare musica, dipinge, danza, magari gli viene lo schiribizzo di non mettersi a consumare in affollamento. Giovani menti in siffatto modo plagiate si mettono a vedere mostre, se ne vanno di teatri, cercano ispirazione fronte mare e, anziché farsi selfie da postare per dimostrare inequivocabilmente la propria esistenza social (pure l’unica seria e possibile), si danno a zibaldone. Qualcuno, poi, di quelli più indefessi a iattura, si mette pure a pensare di testa sua, diventa dialettico, pure conflittuale.

Noi, per fortuna, non siamo mica come certi isolani perduti nel nulla, che noi le risorse le impieghiamo assai meglio. Ma volete mettere d’acquistarsi un bel cacciabombardiere, ch’esalta amor patrio, o rifarsi villetta a 110%? Questo è modo per bene di spendere le nostre tasse. Che io pago!

Ultimo atto?

Arrivato all’ultimo tampone mi pare che mi devo fare pure l’RCA, che non c’è cautela che basti. Se mi va bene domani mi danno il foglio di via libera. Fino all’ultimo inciampo, ch’è scritto pure su fondi di caffè che c’è. Libero tutto, ma di DAD mi cavo gli occhi, e mi si abbassa la palpebra sopra l’oscurità di sotto. Nemmeno mi viene di indugiare a monitor, ch’è roba ormai da tormento, da ferri caldi sotto le unghie. Che mi verrebbe di scrivere ma diottrie esauste m’invitano a frugare in archivio che una cosarella che scriverei pure ora l’ho trovata. Nasi strippati a tamponi ardenti, occhi rifusi, mi rimangono orecchie, e se ne avete altrettante, partite di musica, con quella leggete, se vi viene, che non vi porta scompenso, pure s’è ritrito.

“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.

Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto s’intravedeva appena, una striscia dorata, sottile per le piogge mancate. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.

La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”

L’isola che non c’è più (ancora meno)

Ci vado ogni tanto, e aguzzo gli occhi tra i faraglioni, scruto l’orizzonte questa volta non per cercare la sorpresa, ma qualcosa che m’aspetto ci sia. L’ultima volta è stato qualche giorno fa. Niente, non c’era niente. Si, l’alta marea inganna. Ho montato uno zoom più potente, che mi spinge l’occhio un tantino più in là. Ma la calma piatta non si rompe da lì all’infinito, non v’è traccia di quello che m’aspetto. Non mi rimane che contemplarla, l’isola intendo, nella foto che fa da testata al mio blog in premonitrici forme crepuscolari. Pure la voglio ricordare così, come ne ho parlato solo qualche mese fa che ancora si vedeva.

“Le rughe dell’altopiano, scavate dalle lacrime di Gea, si distendono di meraviglia mentre s’approssimano al mare. E gorgheggiano ancora nei pantani immediatamente a ridosso della costa, salmastri come si compete all’emozione a tinte forti che li ha prodotti. È terra che s’immagina, tanto nelle memorie latine, quanto in quelle arabe, sia stata approdo di Ulisse, uno dei tanti Marsa at Bawalis che non c’è terra del Mediterraneo che se ne sia privata. Forse, per quella vegetazione accesa da Eden ritrovato dell’ultima ruga, prima della grande evoluzione dell’orizzonte, mi sovviene potesse trattarsi di terra di Lotofagi, ma non insisto, poiché nessuna comunicazione ufficiale m’è giunta da poeti con difetti visivi. V’era, su quella costa – così diceva un tal Camilliani, architetto bergamasco esperto di fortificazioni, che la costa della Trinacria, nel XVI sec., se la fece a periplo per studiare la difesa dell’indifendibile – un castellaccio prossimo ad un paese diruto. Poi, per secoli, solo povere case sparse sull’instabilità di dune alte come nel deserto più interno, celate da canneti e lentischi, tra le gemme azzurre e bianche di stagni e sale.

Ne parlavano come la Valletta dei Lupi, a certificare che quella era terra di nessuno, un tempo martoriata dalla malaria. Non c’era la fila per andarci. Così, deserta, me la ricordo, allorché, certe domeniche, si faceva festa nella cascina a fianco la vigna della vecchia zia, dove le uve succhiavano, pur di sopravvivere, acque salate dal mare. Così il vino veniva su aspro e sapeva di mare e terra insieme, che al palato non distinguevi il confine. A berselo per buttar giù le telline, abbondanti pure se tiravi su solo un pugno di sabbia dal bagnasciuga, era esperienza che riconciliava col tempo che passa, poiché lo bloccava come la sbarra faceva con la fila dei carretti di sale e lupini al passaggio della littorina. Dirimpetto alla costa, a spezzare la linea dell’orizzonte, c’è quella striscia di terra, cento metri di scoglio affiorante con un piccolo faro che vi sporge lateralmente, perché le navi che trafficavano il Mar d’Africa sin dai Fenici, non finissero per farne conoscenza rumorosa. Ci andavo a nuoto con una camera d’aria a traino, per non sfinirmi, e lì, maschera e coltello, dopo aver assaggiato il mare nello scrigno dei ricci, mi concedevo la spesa dei polpi per l’insalata della sera. Ci cresceva poco sopra, troppo stretta e troppo a mare, solo i porri selvatici che le avevano dato il nome. Chissà come c’era finita lì quell’isola! Forse un bradisismo, o forse era ciò che restava d’un istmo che le correnti avevano amputato. Fatto sta che mare a destra, a sinistra, a nord, pure a sud, mi pareva che stavo viaggiando con una zattera alla deriva. E gli anfratti rocciosi erano le stive per i miei arnesi da pesca e di certi sacchetti di iuta. Tutta roba che ci ritrovavo al mio ritorno. Chi toccava niente lì? Ed anche qualche pirata vi fosse sbarcato, che ne so, alla ricerca d’un tesoro nascosto, certo non si sarebbe emozionato alla vista d’un paio di coltelli arrugginiti, un gancio incordato ad un tubo di zinco, e quel po’ di contenitori di prede preziose, lì all’uopo per essere riempiti. E ne avrei riempiti anche con lenze ed ami, che lanciavo più a sud, verso l’orizzonte aperto, dalla prua della mia gigantesca ed inaffondabile nave. Ebbi pure compagnia, senza saperlo, poiché lì ci ritrovarono i resti sepolti d’uomini e donne, forse i familiari dell’Emiro Ziyadat Allah III, che qui li seppellì dopo averli trucidati, temendo per loro la peggior sorte d’una sospetta congiura di palazzo.

Nelle giornate in cui pareva che si fosse un tutt’uno col mare, riconquistavo la terra ferma a bracciate stanche e disordinate, che certe navi rocciose così grandi toccano il fondo e non possono attraccare. In spiaggia mi pareva che la cosa più sorprendente di quel viaggio fossero le stelle pittate sulla sabbia da mano d’artista. E la passione di fare castelli di sabbia d’ogni fatta che il tramonto colora di rosso.

Poi qualcuno s’è avveduto che quello era posto di meraviglia, e casa su casa, orrore su orrore, è venuto su un paese che quasi si bagna le fondamenta a mare. Ed i bagnanti fanno chiasso che i cavallucci sono fuggiti atterriti e non ce n’è uno manco a pregarlo in aramaico.

L’isola, invece, piano piano sparisce, quasi non si vede più. Me ne serbo il ricordo antico nella vecchia foto della testata di queste note al margine. Ma non è cosa ch’attiene a leggende o fugaci apparizioni come per certe Ferdinandee. Dicono che è la corrente che se la sta mangiando, quella spostata là di forza dal grande porto a ovest. Macché, figuratevi se il mare si mette ad ammazzare la sua bella figlia, rispondo, l’isola se ne sta andando da sola, di sua volontà, che quello schifo non lo regge. E ne ha ben donde – o d’onde, fate voi – , direi”.