Dialettica della follia, in mostra a Modica Alta

In mostra a Modica Alta nella Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, a cura dell’Associazione Immagina (inaugurazione il 4 gennaio alle 18,30), Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe, quindi anche, stesso orario ma il 14 gennaio allo spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”).

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti sui temi dirimenti dell’oggi, materiale e tangibile, èare occasione concreta per un andar oltre.

Dialettica della follia (Allonsanfàn parte diciassettesima: confronti, Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe)

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

Il prezzo giusto

… oggi nessuno si scandalizza, la società ha trovato dei modi per annullare il potenziale provocatorio di un’opera d’arte, adottando nei suoi confronti il piacere consumista.” (André Breton)

Sergio Poddighe è un amico, di lui, delle sue cose avevo già parlato qui, pure qui. Abbiamo fatto cose insieme, abbiamo riscoperto le nostre siculitudini, siciliani di mare aperto, con la valigia per un altrove, quel desiderio struggente di tornare, roba impertinente che si fa viva come un fenomeno carsico. Ma abbiamo pure giocato, anche coi nostri nomi, ch’io prestai voce ed armonica sgangherata a questa cosa qui di sotto che ha disegni immaginifici suoi.

Mi ha mandato un suo scritto, pubblicato su un suo social.

Sergio Poddighe, nel suo studio

Me l’ha mandato per e-mail, che io sono poco social. ve lo ripropongo ché mi piacque parecchio: “Se da un lato le visite ai musei ci mostrano un persistente interesse per l’arte, dall’altro assistiamo ad una fortissima resistenza a renderla propria. L’acquisto di un quadro, nella mente dei più, rimane prerogativa dei ricchi, magari ignoranti, ma capaci di investire. Tutti gli altri guardano all’opera d’arte come ad un oggetto inaccessibile. A mio parere, la colpa di questa impasse la si deve anche agli artisti: il valore in denaro che danno alla propria opera è quasi sempre esagerato. Con l’equazione “più lo prezzo, più lo carico di valore”, l’artista visivo ha trasformato il suo prodotto in un bene di lusso, rendendone più difficile sia l’acquisizione che la circolazione. Personalmente, se una persona di medio reddito viene nel mio studio desideroso di acquistare un quadro, cerco di fargli un prezzo ragionevole. Non si tratta di sminuire il valore dell’opera, ma di applicare due principi: onorare l’interesse verso il lavoro; rendere il manufatto artistico un oggetto accessibile. Ho gestito per un anno e mezzo una piccola galleria (esponevo solo opere altrui) e una frase ricorrente era: “questo quadro mi piace molto, ma non ho il coraggio di chiedere quanto costa… so già che non è alla mia portata”. Un pittore non dovrebbe tentare di vendere un quadro ad un prezzo che egli stesso non potrebbe permettersi. Un’inversione di tendenza aiuterebbe la crescita di tutti, accorciando la distanza tra chi ama l’arte e chi la produce.” (Sergio Poddighe)

Posto che sono d’accordo con quanto scrive Sergio, che ciò potrebbe apparire non autentica sorpresa – le persone si frequentano se c’è idem sentire, almeno da qualche parte -, mi va di aggiungere qualcosa, quale nota a margine d’una ricerca imperfetta, che è compito statutario di queste pagine mie. A premessa ricordo che certe avanguardie che fecero storia dell’arte furono più avvezze a frequentazioni di bettole che non di salotti buoni, pure m’è dato a sapere che espressioni elevatissime d’arte trassero ispirazione da privazione e non dal lusso. Tante esperienze di straordinaria bellezza sono finite in dimenticatoi cupi perché non si confrontarono mai in modo efficace con regole, non di bellezza e talento, ma di economie asfittiche e grigie. Oggi, l’artista che non fa scelta diversa da ricerche di prebenda, di curatele un tanto al chilo a prezzo d’oreficeria, di critico ad esaltazione per alzo quotazione, che non si fece sussieguoso ed accondiscendente con fatto di mercato e potente di turno, rimase invisibile. E mi preme dire a Sergio, ch’egli, che è artista di talento limpido, come altri (pochi, invero) par suo, e che fece scelta diversa, non avrà palcoscenico degno, sarà, come l’arte sua, confinata a poco, che c’è il mondo del valore di scambio che non consente che l’arte giunga a chiunque; lo spazio adeguato a che venga resa nota gli verrà precluso, verrà sottratto a lui, ma anche a tutti quelli che ne avrebbero tratto certo giovamento. Aggiungo, l’artista non è soggetto neutro, egli viaggia per il mondo, ne ha, in qualche modo, consapevolezza: dunque, se ritiene che la sua sia arte da grande prezzo pratica una scelta ideologica e nulla più. Egli aspira a vetrina e grande compenso per una ragione sola, perché egli ha, istintivamente, a prova provata di suo agire, un’idea altrettanto ideologica della società. Egli ama la gerarchia sociale, ama il doblone quale criterio di valutazione degli uomini, non è interessato a che la sua arte giunga al più ampio pubblico possibile, che dia un contributo critico alla lettura del mondo, sia di godimento a tanti. Egli aspira alle folle solo se fatte di pubblico pagante, al più in forma di claque al momento del suo ultimo vernissage. Sarà artista costui? Forse si, ma la bellezza è un’altra cosa, non è roba esclusiva. Per quanto mi riguarda questi rimarranno solo mercanti, che vendono la propria arte non perché è bella, ma perché vale un gonfio conto in banca.

La biennale (Allonsanfàn parte ottava: ancora su Sergio Poddighe)

Che v’è traccia di biennio grigio, fra poco s’avrà d’accadimento che giornale su giornale, TV su TV, come Torre di Babele, pure ogni social e a-social, proferiranno memorie a ricordo di tutto ebbe inizio, di quando l’umanità scivolò in incubo d’assurdo. Io mi porto avanti, che non celebro, ma m’attrezzo di musica.

M’è dato – immagino come ai più – di pensare al mancante di questi due annucci belli, trascorsi in ambascia da atomica, per pensiero a ciò che non c’è, che, a dir pur il vero, non è tanto pure se è troppo. Che mi manca farmi il lavoro mio dabbene, e non di rincorsa ad ansia, a crocettare moduli espansi a logaritmo, e di tanto chieder conto a francobolli a monitor o facce a vincolo di maschera, espressioni irrisolte, antologia di parte mancante. Manco di movimento a bellezza, di libro condiviso tra libri, di mostra orchestrata a chiacchiera d’autore, di concertino a base ritmica di whisckettino, la solitudine in chiave di Sol a contrappunto d’improvvisazione. Trattengo lacrime, che m’impigrisce d’usarne per l’arte che muore. che al biennio mi faccio mia personalissima biennale, mi ricordo d’artisti, e, con aggiornamento appena a plausibile, mi riprendo in mano cosa vecchia eppur giovane.

E chi lo può sapere quando finisce, che fior fiore d’esperti s’arrabattano come alchimisti di medio evo, a non buttar giù le porcellane buone, a non turbare suscettibilità di tribunali d’inquisizione social, che quelli maneggiano punizioni e torture peggio di certi tenutari di scantinati d’antichi castellacci e di anticamere di forche papaline. A dirla, che fui pescatore, si naviga a vista. Posto questo, che mi pare di buon senso, quasi chiacchiera da bar, forse pure peggio, ci sarà poi da rifar casse pubbliche a fondo grattato, che chi pagherà sa già dell’oro alla patria. Poi, ciascuno, fa i conti con le proprie vittime. E chi sceglie di campare d’arte, che già era cosa assai complicata a tempi di vacche grasse, ora, con bovini a stecchetto, s’attende di attraversare il deserto. Che se compro un quadro bello – quello mi permetto, non di più – spendo quanto un paio di telefonini, ma il quadro, ch’è anticamera d’inferno, se non lo brucio a camino a tempi ancor più di magra, mi dura, l’altro me lo danno a scadenza. Se compro un libro, e metti caso mi viene pure schiribizzo a lettura, rubo tempo, ore e giorni, a rischio che mi spunta lo spiritello critico, m’arricchisco di prospettive e non di cash & carry. Tolgo tempo ad altro a scadenza, a fila alla cassa. Se mi vedo una mostra o spettacolo di teatro, non solo tolgo tempo a cose che hanno più apPIL, ma poi me ne vengo fuori con strane idee, forse anche solo con idee. M’arrischio di possessione, che, fatta salva la “nobile” eccezione, cultura non è missione a gratificazione d’anima, o magari roba a camparci a dignità, è cosa d’affari, di prebende, familismi. Mi posso, che ne so, per suadente lusinga di cliente, considerare che sono attore memorabile, fotografatore (da notare il neologismo, contraltare d’accezione corretta) ispirato, dipingitore (anche qui, mi supero in politically correct, che potevo dire imbrattatele, ma sono persona dabbene) sublime, scrittore arguto e raffinato, e pure, a somma fortuna che s’accompagna ad ego smisurato, essere cugino del sindaco, cognato dell’assessora, nipote del plurimilionario fabbricatore, che pensa ch’è meglio mi dedichi all’arte, dovesse saltarmi lo sghiribizzo di metter bocca negli affari di famiglia. Questi, che di prebende fecero virtute, la crisi non la patiranno, e si vedranno garantiti posti e fortune, notorietà imperitura. Che se poi, con umile portamento, gli chiedi di condividere almeno spazi e non denari, ti guardano come fossi il lazzaro senza speranza di resurrezione, che c’è pericolo di contagio (ma quale contagio?), ti rigirano il no, sotto forma di c’è chi può e chi no: ed io può, che da quelle parti troppa cultura bene non fa.

Allora, a me, che di talento non dispongo, ma che, per disponibilità e temperamento, nell’arte (che costa assai meno d’altro a scadenza) trovo soddisfacimento per certe pulsioni elementari, mi viene in mente la pletora degli altri, che non li manda Picone e che non hanno facce le cui sembianze sono assimilabili ad altre zone anatomiche. Ecco, tra questi ce ne sono di bravi, di talento portentoso, che hanno studiato, ma non diritto di cittadinanza, per carattere e ritrosia. Talvolta, – assai spesso, invero -non hanno santi in paradiso che li illuminano d’incenso. E allora io voglio fare una cosa, cosa da poco, roba che vale quel che vale, che certe volte conta il pensiero. Io questo ho, il blog, e glielo apro, li presento, li ospito come fosse casa loro, anzi, è casa loro. Che importa in quanti leggeranno, che sarà comunque uno in più.

E allora comincio subito con uno che trovo veramente bravo, perché me lo ritrovo magicamente tra il surrealismo di Breton, le copertine delle Mothers of Invention, pure tra amici cari: Sergio Poddighe.

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano, a partire dalla constatazione della propria progressiva mutilazione.

Sergio Poddighe è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

https://www.sergiopoddighe.it/

La mostra covid free (Allonsanfàn parte prima: Sergio Poddighe)

E chi lo può sapere quando finisce ‘sta cosa della pandemia. Ci sono fior fiore d’esperti che brancolano nel buio, s’arrabattano come alchimisti nel medio evo, facendo attenzione a non buttar giù le porcellane buone, a non turbare le suscettibilità dei tribunali dell’inquisizione social, che quelli maneggiano punizioni e torture peggio di certi tenutari di scantinati d’antichi castellacci e di anticamere di forche papaline. Insomma, si naviga a vista. Poche idee ma confuse. Posto questo, che mi pare di buon senso, quasi chiacchiera da bar, forse pure peggio, ci sarà poi da ricostruire tutto, economie sfasciate, casse pubbliche di cui si vedono fondi grattati, cose così. Poi, ciascuno, fa i conti con le proprie vittime. Mi pare che però pochi facciano i conti, a parte giusto i diretti interessati, con chi sceglie di campare d’arte, che già era cosa assai complicata in tempi di vacche grasse, ma ora che i bovini sono a stecchetto, attendono di attraversare il deserto. L’arte e la bellezza fanno abbassare il PIL, sono improduttive. Cioè, se compro un quadro bello, e mi posso permettere quello e poco altro, spendo quanto un paio di telefonini, ma il quadro, ch’è l’anticamera dell’inferno, ci sta che mi dura una vita, mentre il cellulare me lo danno a scadenza. Se poi alzo il prezzo, c’è poco da fare, sfioro l’automobile. Peggio, se compro un libro, e metti caso mi viene di leggerlo; richiede tempo, me ne devo stare ore e giorni davanti quelle pagine col rischio materiale che mi spunta uno spiritello critico in testa, m’arricchisco di prospettive inedite e non cash & carry. Tolgo tempo alla fila al centro commerciale, dove, altro che libro compro. Stessa cosa mi succede se mi vado a vedere una mostra o uno spettacolo di teatro, non solo tolgo tempo a cose che hanno più apPIL, ma poi me ne vengo fuori con strane idee.

Moralis de fabula, leggere, ammirare l’arte, la bellezza, sono abitudini da non coltivare, mi pare. Fatte salve alcune “nobili” eccezioni. Perché la cultura, per qualcuno, non è missione da cui ricavare somme gratificazioni dell’anima, e magari tirarci fuori di che campare con decenza, è cosa d’affari, di prebende, familismi, organizzazione del consenso. Mi posso, che ne so, per suadente lusinga del cliente, considerare che sono attore memorabile, fotografatore (da notare il neologismo, contraltare dell’accezione corretta) ispirato, dipingitore (anche qui, mi supero per politically correct, che potevo dire imbrattatele, ma sono persona dabbene) sublime, scrittore arguto e raffinato, e pure, a somma fortuna che s’accompagna ad un ego smisurato, essere cugino del sindaco, cognato dell’assessora, nipote del plurimilionario fabbricatore, che pensa ch’è meglio mi dedichi all’arte altrimenti mi balena in testa di metter bocca negli affari di famiglia. Beh, questi, che di prebende fecero virtute, la crisi non la patiranno, e si vedranno garantiti spazi e fortune, nonché notorietà imperitura, ora e per sempre. Che se poi, con umile portamento, gli chiedi di condividere almeno gli spazi, ti guardano come fossi il lazzaro senza speranza di resurrezione, ti rigirano il no sotto forma di c’è chi può e chi no: ed io può, che da quelle parti troppa cultura bene non fa.

Allora, a me, che di talento non dispongo, ma che per disponibilità economiche e temperamento, nell’arte trovo soddisfacimento per certe pulsioni elementari, mi viene in mente la pletora degli altri, che non li manda Picone e che non hanno facce le cui sembianze sono assimulabili ad altre zone anatomiche. Ecco, tra questi ce ne sono di bravi veramente, alcuni di talento portentoso, che hanno studiato, ma pare non abbiano diritto di cittadinanza, per carattere e ritrosia, talvolta, spesso perché non hanno santi in paradiso che li illuminano d’incenso. E allora io voglio fare una cosa. Una cosa da poco, roba che vale quel che vale, certe volte conta il pensiero. Io questo ho, il blog, e glielo apro, li presento, li ospito come fosse casa loro, anzi, è casa loro. Mi scrivo le mie cose, poi, spazio all’arte ed alla bellezza che altrimenti, ora come ora, non se le vede nessuno. Che importa se qui al massimo la vedono in sette o otto, sono sette o otto più di prima. E mi viene da pensare che se la faccio io questa cosa, poi c’è qualcuno che s’appassiona e reitera il gesto, così l’rt della bellezza diventa pericolosamente alto come quello del Covid. Magari rimane traccia. Se son rose…okkio al PIL.

E allora comincio subito con uno che trovo veramente bravo, perché me lo ritrovo magicamente tra il surrealismo di Breton e le copertine delle Mothers of Invention. Sergio Poddighe.

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano.

SERGIO PODDIGHE è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

https://www.sergiopoddighe.it/