(dis)umanità di scoglio

Che festa mi fece veder piazza piena, per sciopero grande e grosso, per orgoglio a dire no a violenza su donna chicchessia sia, pure mi rallegrai a veder manipolo di temerari in qui ed in là – non gremiti a stadio fitto, ma tant’è – per no a guerra e no a massacro in Striscia. Ma che dolore mi fece che nessuno vidi a far protesta per ennesima bimba che a settimana che se ne andò che non toccò a tempo giusto scoglio a fronte di Mar d’Africa, ch’ella non ce la fece ad andare oltre gli anni due suoi. E questo mi fece assai poca festa. E m’avvedo di ripubblicare una cosarella già desueta per quanto è consueta, anche per fare omaggio ad amicone mio che ha botteguccia (proprio qui) che concede a me ospizio di tanto in tanto.

C’è scoglio e scoglio ché non tutti sono uguali. C’è scoglio finto, eletto a frangiflutto, di pietra per scherzo, manufatto di calcestruzzo d’innaturale cubo, schiavo già a concepimento, a prendere schiaffo di mareggiata per protezione di banchina di molo, a non far di rena di lido polvere di marea, a reggersi a barriera per porre divieto di diruto a villetta fronte mare, a impedire a budello di strada a fresco di palma di divenire solo voragine di falesia.

«C’è scoglio a supponenza, che mette culo a nord e muso a sud, pure a viceversa, a prender sberle da vento di maestro, ma che non si fa a sottrazione di scirocco e libeccio. Talaltro scoglio si fa ponente e levante insieme, che di grecale patisce l’onda, ma pure a provenza s’espone, a farsi rosicare frammento ad ogni uggio di tempo. C’è scoglio mansueto, che s’alliscia piano di risacca, si infila collana di cystoseira, all’uopo s’adatta ad ospizio per sole, si finge spiaggia rubiconda a color medesimo di sabbia. C’è scoglio pure che non s’avvede di brutalità di bufera, che prima s’alza a promontorio, poi, a grattar d’onda a tempesta, diventa amputazione, pare nave d’Argonauta pronta a varo e, a confine suo, fatta isola, si cinge di corona d’alga. Ce n’è altro che di corrosione di sale si camuffa a riccio puntuto, diviene collezione di lama di rasoio e qui non si cammina. Se ne videro che prima furono in vetta a ripido strapiombo, quindi, per scavo d’inesorabile cavallone, si fecero scoglio riverso per crollo improvviso e ancora portano traccia di antica postura in radice d’arbusto cotto al sole messo a testa sotto. Se ne scorsero di biancheggianti di calcare, tali altri furono di nero basalto o dorati di friabile arenaria.

Certi paiono a gobbe di cammello o unica di dromedario, su altri si scavano pozze, diventano alveari di granchio e paguro, s’istoriano della patella, si tingono di mitilo. Tutti questi, tanti altri, non s’affermano d’ospitalità mondana per forza, talora stanno alla larga da fasto di cartolina, s’accucciano a braccia di mare, ne reggono l’urto d’intemperanza, si carezzano di bonaccia, ma pare fanno all’unisono trampolino per sguardo acceso a volta d’orizzonte, passerella per infinito, si tingono di colore di sangue e vino quando la distesa dinnanzi s’inghiotte il sole, per poi risputarlo a luogo opposto. Si strisciano di bianco di sale, talora patiscono il tratto nero della pece, l’azzurro della pietra celeste che impazzimento produsse al polpo a tana di sotto. Se ne vedono che pare che aspettano compagnia, si dispongono ad acqua cheta, ma pure fanno resistenza a fortunale, che sollevano lo spruzzo ad altezza di vertigine e fanno omaggio di sale al tutto d’intorno. Ma non c’è, mai ci fu, mai ce ne sarà, scoglio che si sottrasse a braccia ad aggrappo per porto salvo, che pare – scoglio intendo – a cuore assai ampio per accoglimento d’altro che fece cammino d’intemperia.»

Conversazione in Sicilia

Ora che c’è collera autentica che missile non partì da parte sperata, pure se il rapimento della secchia pare ancora oggetto di scontro, che non poté esserci partecipiamo tutti a tappeto di cadaveri, Mi riepilogo, così, per celia, antica disfida che mi parve, ad onor di vero, assai più seria, pure se a coscienza collettiva è serietà far morto assai, financo ad annego e per bomba intelligentissima. Ma prima vi ammusico un tanticchia.

Dio ha condannato noi uomini a lavorare e uno penserebbe che i posti dove non si vede l’ombra di un povero diavolo che tiri la zappa siano stati abbandonati dagli uomini e da Dio. Invece sono posti pieni di gente anche più degli altri. Con la differenza ch’è gente che ha capito, e che se la spassa in città, la maggior parte del tempo, a chiacchierare nelle piazze e a far festa nelle chiese. Poiché Dio è di manica larga, sa di averci condannati in un momento di cattivo umore, e trovar gente che lo capisce gli fa un piacere tale che ronza di continuo intorno a loro, e lavora Lui per loro; e rende ricche di raccolti le campagne loro come capita di rado che siano di quanti si attengono alla lettera della Sua scrittura”. (Elio Vittorini)

E musica sia, ancora, che ci serve.

Che stando sul Mar d’Africa mi sovviene di personaggi mitici, di epoche in cui la tavola imbandita sotto la pergola ospitava cene di Lucullo, pane, olive, cacio e uova sode, con acciughe e pomodoro secco quali note a margine. Mai mancò da bere, pure se se ne faceva uso in tanti e in tanto.

Seppure s’inebriava il tutto d’intorno, che svuotava meningi di contenuti eccelsi, talora capitava che d’iskra s’illuminasse il tutto, che la tavolata beona pareva trasformata in cenacolo, in zibaldone, senza che nessuno se ne lagnasse. E seppure, spiazzato dall’evento, il vecchio amico, di cabareth edotto, provasse a creare discontinuità col chiedere, ad accento di Piero Aretino, se Jo Pomodoro fosse di Pachino, vi fu una sera, ch’appare d’altra epoca, scontro durissimo, di dialettica quasi al limite del serramanico. E non so come che capitò di chiacchierare in toni pacati di Gattopardo, che taluno tirò fuori la cosa a margine di ragionamento, che fece supposizione che rimane mistero di chi ne completò lo scritto. Che il finale pareva appiccicaticcio, che Visconti, a creare capolavoro, pareva se lo fosse giocato pari pari. E fin lì si concordava, se nonché, come fu e come non fu me ne faccio immemore, che talaltro sbiascicò di “minchiata” di Vittorini, che si fece cassatore della pubblicazione con Einaudi. E lì s’aprì cavalleria rusticana, che mancò poco volassero piatti, dei bicchieri v’era meno rischio. Ora, io patteggiai a difesa dell’uomo d’Ortigia, di cui ero edotto circa alcune asperità caratteriali, per biografie di chi lo conobbe, di comuni conoscenze, che io ho anagrafica che non me ne permise frequentazione, nemmeno occasionale incontro. Pure, di tutta l’opera me ne costruirei monumento a capezzale, per scrittura magnifica, profondità d’abisso, acume d’analisi a vertigine. Ma anche pensiero di libertà definitiva, che disse no a Baffone allorquando era vietato di legge morale, pure al Magnifico s’oppose, senza rinunciar a radicale critica eterodossa di società. Che mi parve fosse naturale che cestinasse malamente l’opera d’uno che tutto cambia, perché nulla cambi, mentre s’avvampava di guerra a sangue a contadini esausti del lungo assalto a latifondo, morti a fasci di fuoco incrociato di picciotti e sbirraglia scelbiana. Pure, a me, le saghe noblesse oblige manco mi piacciono, m’infastidiscono, talora m’annoiano. Feci banda di tali convincimenti a gruppo compatto, che Vittorini fece bene, che avremmo controfirmato a sangue la scelta impopolare; ma la controparte era analoga di numero e di mezzi dialettici e, al calor bianco, alimentò disfida, che pareva Italia e Francia giocata da bimbi a fionde nei vicoli del Garofano Rosso. A dir di loro, la cassata – nel senso di censura, non di torta isolana – era infarcita di pregiudizio ideologico, che il libro del Tomasi, pure se pareva politicamente non correttissimo, era pur sempre capolavoro di scrittura elevata. La tenzone continuò a lungo, alimentata da rosso soave, arma impropria di guerra, solleticante ugole ad urla. Sinché tutto ebbe quiete, che il vecchio a banda ammise, a candido sorriso divertito dalla battaglia, che la lettera di Don Elio l’aveva letta per bene, che lì non c’erano i toni della censura, ma quelli pacati d’editor responsabile, con timido accenno all’incompletezza dell’opera. Incompletezza poi colmata nella pubblicazione definitiva da mano ignota, forse.

Che mi venne di quell’episodio metafora e morale insieme, che oggi due bande s’affrontano su campo assai più vasto, che di proprie verità fanno l’assoluto, come il reziario distrae il popolo bue dalla natura oggettiva dell’incedere delle cose, forse assai più semplice e pacata di contratti per bave alla bocca.

Di viaggio, di sale

Vado di riciclo, che s’avvicina ora di pranzo ed è stato periodo di grandi fatiche. Pure non mi passò la fame ed anzi vi porgo suggerimento che potrebbe far passare la vostra. Mentre mi faccio musica buona.

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

“Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.”

Attese di pagine unte

C’è, e me ne avvidi- in attesa che signora primavera si ripresenti rinunciando ad ottusi ritardi – sottile ma robusto legame tra gusti letterari e gastronomici. Pure di musica però, che ci vado immantinente.

Ci sono fast food di vaghi retrogusti rancidi, salse e bibite che sanno di melassa, sapori che palati prelogici non solo gradiscono, ma pure mettono a corredo di certe letture – qualora ve ne siano, che capita di rado – che, appunto, sanno di rancido, di melassa, stuccano. A me tali cose – nessun pregiudizio nei confronti di chi ne fa uso massiccio, pervaso dal germe del mordi & fuggi -, che pure s’accompagnano a musichette sui cui testi glisso, mi fanno aumentare, ora la glicemia, ora il colesterolo, sfociano in reflusso gastrico, solo le legga, sia anche le mangi, pure le ascolti. Dunque, privandomene con cura, soprassiedo nel darne giudizio, mi dichiaro incompetente, potrei non essere all’altezza, giacché della loro esplorazione attenta feci a meno, né, ritengo, di sottopormi a radicali ripensamenti. Vi sono, invece, certe cene che non si dimenticano, quel dentice, innaffiato e basta con un bianco che non interferisce col gusto, lo esalta piuttosto, come lente d’ingrandimento ne illustra i dettagli, evita l’affastellarsi d’una moltitudine confusa di sensazioni indistinte. Rimane nella memoria, non accenna ad abbandonare la sua essenza di ricordo felice, semmai si dispone con sapiente lentezza, senza sgomitare, diacronicamente accanto ad altre esperienze di siffatta specie, pur mantenendo posizioni privilegiate. Vi sono, lì nei pressi, certi saraghi del Mar d’Africa, attesi senza fatica all’amo per ore, che abboccano mentre l’alba si esercita in cromatismi spiazzanti; pomodori colti negli orti degli dei, con lo sfondo lontano della fiammeggiante irrequietezza della tomba di Empedocle, ancora, chicchi di melograno giunti direttamente dalla terra dei Lotofagi.

Ivi echeggiano certe suite, certe tirate di fiati, battute a controtempo su clap, pure a tasti bianchi e neri, vibrati di corde. Dimensioni perfette del gusto, del suono, che invogliano le palpebre a socchiudersi, per spalancarsi poi a veglia su letture lente, articolate, sofferte, che però finiscono per scivolarci per sempre dentro, in forma di una ruga in più, un guizzo comportamentale, un’attitudine… Distinguo, su ripiani facili da raggiungere, le coste importanti di certe cose così… Tutta roba che, quando se ne parla, riecheggia come tappa essenziale della nostra esperienza formativa, ed un piatto assume consistenza letteraria, almeno quanto un libro lascia al palato quel gusto permanente che deriva da ingredienti esiziali per cuochi abilissimi nell’amalgamare le parole. Eppure, accanto a ciò, c’è anche dell’altro… E se “L’uomo senza qualità” invoglia alla liturgia d’una Sacher, almeno quanto “Il garofano rosso” spinge verso il rito di un budino di mandorle, così, certi banchi di frutti di mare, pomodori secchi, olive farcite e peperoncini diabolici, immersi in un Suk di colori e profumi, offrendoci l’opportunità di consumi rapidi ed estemporanei, accelerano il desiderio di tornare a sfogliare libercoli leggeri, poche pagine che sembrano scivolare via come va giù un mitilo al limone, o un tocco di pepato fresco s’annega nel sorso d’un Frappato. Certo, v’è forse un po’ di pudore nell’ammettere che quelle letture d’un paio d’ore, street reading consumato sulla panchina d’un parco, a sedere su un muraglione dirimpetto al mare, sotto un albero di ulivo saraceno, pure distratti dalla risacca o dagli uccelli (e non solo dal loro canto), possano averci formato gusto e memoria; ma che bellezza “Tre uomini in barca (per non parlare del cane)”, “l’uomo invaso”, “Ricette immorali”. E se il pensiero corre immediato al perfetto abbinamento letterario gastronomico del Gattopardo, allorché Angelica perdette la sua elegante postura, lanciandosi assatanata, dunque, finalmente, umana, sul timballo di maccheroni, o se gli arancini dei Benedettini deconcentrarono financo i Viceré, è però anche vero che occorre altro che non sia di così difficile asporto quando si decide che la domenica mite di primavera si proclama tale al lusso d’una panchina, a consumo appena d’un libercolo. Non mi rimane che suggerirvene uno che avete già letto, che ci riconsegna la sorpresa d’un ordito, che disvela dettagli sempre nuovi senza l’intralcio d’una trama ignota. Che ne so, un Diario di Eva, o di Adamo, se vi pare, una cosa che scende giù come un bicchiere di Zibibbo fresco, o l’agognato caffè di prima mattina. Ma prima di ritrovare la solita panchina e di scovare la lettura prescelta sullo scaffale in alto a destra, in un mortaio triturate frutta secca, pinoli, nocciole, noci, mandorle, pistacchi non salati, e spolverateli di semi di sesamo. Poi lasciate che il miele di timo (che fortuna se aveste quello di carrubo a portata di mano) si sciolga sino a caramellare sul fondo di una padella; versatevi sopra il trito e amalgamate tutto. Dunque, versatelo ancora bollente su un foglio di carta forno, sino a farlo consolidare in forma di lastra di vetro brunito, e spaccatelo a quadri che infilerete in un cartoccio da portare con voi. Quel crunch di sgranocchiamenti che ne conseguirà sarà allo stesso tempo colonna sonora della vostra lettura e arma di dissuasione di massa per tenere lontane presenze importune. Che meraviglia – di tanto in tanto, e senza esagerare –, che guerre tolgono il sonno, pandemie furono, ex legis, abolite, far finta di essere sani!

Di vento

E mi sono accorto che per un attimo o due parevo quell’altro me, che m’ero, di recente, messo a parlare di cose serie, a simposiare come meglio potevo su cose importanti, che è condizione che a nessuno non appartiene. Me ne sono accorto stamane ch’era freddo, e soffiava un vento non forte, gelido per me che sono d’Africa. Ma si portava qualcosa che pareva venire da zona di sale, una cosa che diventa fremito sotto pelle, che è sensazione che conosco. Subito, quell’embrione di cosa gradita, mi porta a vento altro, furibondo di tempesta, cui sono più avvezzo. Che vado di musica e poi a riproposta di ciò che dico e che già scrissi, pure m’è d’aggrado che riciclo che oggi ho occhio spento che pare di triglia a cataratta.

“Il vento qualche volta lo fa. S’arriccia il pelo che pare un gatto, si smarca dall’orizzonte azzurro col colore della sabbia, e s’avventa a terra come se questa gli avesse strappato di bocca il topo. “Non ce n’è pesce, e non ce n’è per tre giorni”, dice Gianni. “Tanto dura”. E si mette la barca a posto, che pure al porticciolo non è sicura, si alzano certe onde come a mare aperto, e quanto le smanaccia il libeccio. Bisogna allontanarla dallo scoglio e dalla banchina, tesa a mezza costa dalla cima alla bitta e con l’ancora per l’altra parte. E si spera che regga, senza grattare troppo il fondo, trovando appiglio giusto sott’acqua su uno scoglio robusto, e no sulla sabbia fine e fango. Il rischio è che te la ritrovi un pezzo qua e uno là. Pure gli stagnoni si sono gonfiati, e garzette e pellicani e ogni altro uccello da pesca se ne stanno per aria, immobili, paiono scolpiti nelle nuvole di sabbia e appesi a una specie di soffitto. Tanto, manco per loro c’è pesce. Quelli se ne sono andati al largo, nel silenzio profondo, dove non s’ammaraggiano troppo, non rischiano di finire pancia sopra sulla spiaggia, o a sguazzare senza scampo nelle pozze sugli scogli. Per un po’, laggiù, sono pure più tranquilli, che non s’aspettano né bocconi amari né impigli. Quelli che non ce la fanno già sono pranzi veloci dei gabbiani.

Certe volte lo fa, il vento, che all’incrocio dei due mari s’infila nel gradino che quello più caldo fa sopra quello più freddo, e la striscia bolle di schiuma. Una volta o due ti pare di vederci sotto Cariddi, tanto s’agita. Con lo sguardo cerchi di capire dove arriva, ma poi la perdi perché la schiuma si alza fino al cielo e non si vede niente. Il sale ti entra negli occhi, la sabbia in bocca. Un bar aperto c’è, piccolo, con la signora che borbotta come una caffettiera, contro il tempo, contro la stagione, contro il governo. Gli altri sono chiusi, quelli sono di gente di fuori, aspettano i turisti ed ancora non è tempo loro. Comunque, un caffè si recupera. Sa di sale pure quello, o forse è solo il sale che t’è rimasto in gola per quei cento metri sulla banchina, in mezzo al paese deserto e alle scoppole del vento d’Africa. “Non ce n’è pesce”, dice pure lei, e torna a maledire tutto. “Tre giorni dura”.

Il vento qualche volta lo fa, soffia tre giorni e poi smette. Questo è solo il primo, per gli altri s’aspetta. Nemmeno le barche grosse escono col tempo così. E dove vanno, a farsi inghiottire da Cariddi, a farsi scippare le reti da fauci di Scilla?

Il vento lo fa, qualche volta, che ti deposita le posidonie pure sulle cime delle palme, ti scoperchia le serre, si ruba la spiaggia e con la sabbia rossa ci ricopre la strada. Quei quattro chioschi di legno che in estate sfornano bicchieri colorati non ce la fanno nemmeno a passare la prima mezz’ora, poi chissà se li recuperi per la bella stagione. Magari approdano più in là, dopo il promontorio, si travestono di barca fenicia, o relitto di disperazione, e qualche genio in costume, fra qualche mese, si pensa d’aver trovato chissà quale testimone di intemperie tropicali, di viaggi senza rotta, di pirati e corsari.

Il vento lo fa, certe volte, che d’improvviso s’inchina. Lo fa quando sei solo però, che s’abbassa e ti fa passare, sino allo scoglio, concedendoti il tempo per raccogliere la stella. Lo fa quando sei solo, così, se lo racconti, non ci crede nessuno.”

Come alla radio

Che volevo già farlo prima, ma temevo che, con audience portentosa, impattavo gioiello nazionale di musica. V’accompagno a suoni, come facevo con radio pirata in illo tempore, ch’ero giovane.

E comincio con costernazione che il piccolo Rayan non ce l’ha fatta, per un pelo non riuscì a farsi altro gioco che gli competeva. Ma non m’è sfuggito, che è sfuggito ai più, di altri che videro e vedono quanto è profondo il mare, in orizzonte di mare mio. Che a loro non è dato manco conforto di tifo planetario, defunti già a memoria prima d’esserlo, che per paese che s’avvia a reparto di geriatria, che gerontocrazia è già, – che pure i giovani paiono vecchi più dei vecchi, che manco un guizzo – quelli erano figli di sopravvivenza per civiltà, e divennero invece vuoti a perdere.

E vado di musica a gioco.

Che fu fortuna che arrivò l’annuncio del tutti in pista da qui a poco, che stavo perdendo peso per preoccupazione. Una volta, che passarono lustri e lustri, pure io mi feci una discoteca, e v’entrai per tempo di circa sette minuti, poi fuggii, desideroso di spazi aperti e sconfinati deserti di Patagonia, che passai la notte che rimaneva sulle pagine di Bruce Chatwin.

E ancora vi do musica, di dancing, che non voglio apparire poco consono e non avvezzo, pure che me la tiro con puzza sotto il naso.

Che a manganello in testa a bimbi, s’è fatto redazionale d’ogni giornale, che è giusto, pure esatto e non se ne poteva fare a meno, che inviterei me stesso a mare, su scoglio poggiato ad orizzonte, che almeno lì c’è conforto alle piaghe d’oggi.

E mentre ci hai ‘na sigaretta dammi cento lire, pure lì vi do musica, se ancora v’aggrada e siete qui.

Mi chiudo discorso, che la trasmissione s’è protratta, con ricordo di Nibelunga, che chissà dov’è ora, che allora s’innamorò di colore d’ambra dirimpetto ad Africa.

Che s’avvide che, qualunque cosa facessi, sempre pescatore e marinaio restavo, pure in cima a montagna, e mi omaggiava di ciò in musica con chitarra di Spagna, per sguardo mio ad un sudest di rotte che ancora non ho visto, che tutti, al più, valiamo tre soldi, talora – ma parlo per me che son nessuno – anche meno.

Di viaggio, di sale

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.

Conversazione in Sicilia

Dio ha condannato noi uomini a lavorare e uno penserebbe che i posti dove non si vede l’ombra di un povero diavolo che tiri la zappa siano stati abbandonati dagli uomini e da Dio. Invece sono posti pieni di gente anche più degli altri. Con la differenza ch’è gente che ha capito, e che se la spassa in città, la maggior parte del tempo, a chiacchierare nelle piazze e a far festa nelle chiese. Poiché Dio è di manica larga, sa di averci condannati in un momento di cattivo umore, e trovar gente che lo capisce gli fa un piacere tale che ronza di continuo intorno a loro, e lavora Lui per loro; e rende ricche di raccolti le campagne loro come capita di rado che siano di quanti si attengono alla lettera della Sua scrittura”. (Elio Vittorini)

Musica sia, ora, che ci serve.

Che stando sul Mar d’Africa mi sovviene di personaggi mitici, di epoche in cui la tavola imbandita sotto la pergola ospitava cene di Lucullo, pane, olive, cacio e uova sode, con acciughe e pomodoro secco quali note a margine. Mai mancò da bere, pure se se ne faceva uso in tanti e in tanto.

Seppure s’inebriava il tutto d’intorno, che svuotava meningi di contenuti eccelsi, talora capitava che d’iskra s’illuminasse il tutto, che la tavolata beona pareva trasformata in cenacolo, in zibaldone, senza che nessuno se ne lagnasse. E seppure, spiazzato dall’evento, il vecchio amico, di cabareth edotto, provasse a creare discontinuità col chiedere, ad accento di Piero Aretino, se Jo Pomodoro fosse di Pachino, vi fu una sera, ch’appare d’altra epoca, scontro durissimo, di dialettica quasi al limite del serramanico. E non so come che capitò di chiacchierare in toni pacati di Gattopardo, che taluno tirò fuori la cosa a margine di ragionamento, che fece supposizione che rimane mistero di chi ne completò lo scritto. Che il finale pareva appiccicaticcio, che Visconti, a creare capolavoro, pareva se lo fosse giocato pari pari. E fin lì si concordava, se nonché, come fu e come non fu me ne faccio immemore, che talaltro sbiascicò di “minchiata” di Vittorini, che ne cassò la pubblicazione per Einaudi. E lì s’aprì cavalleria rusticana, che mancò poco volassero piatti, dei bicchieri v’era meno rischio. Ora, io patteggiai a difesa dell’uomo d’Ortigia, di cui ero edotto circa alcune asperità caratteriali, per biografie di chi lo conobbe, di comuni conoscenze, che io ho anagrafica che non me ne permise frequentazione, nemmeno occasionale incontro. Pure, di tutta l’opera me ne costruirei monumento a capezzale, per scrittura magnifica, profondità d’abisso, acume d’analisi a vertigine. Ma anche pensiero di libertà definitiva, che disse no a Baffone allorquando era vietato di legge morale, pure al Magnifico s’oppose, senza rinunciar a radicale critica eterodossa di società. Che mi parve fosse naturale che cestinasse malamente l’opera d’uno che tutto cambia, perché nulla cambi, mentre s’avvampava di guerra a sangue a contadini esausti del lungo assalto a latifondo, morti a fasci di fuoco incrociato di picciotti e sbirraglia scelbiana. Pure, a me, le saghe noblesse oblige manco mi piacciono, m’infastidiscono, talora m’annoiano. Feci banda di tali convincimenti a gruppo compatto, che Vittorini fece bene, che avremmo controfirmato a sangue la scelta impopolare; ma la controparte era analoga di numero e di mezzi dialettici e, al calor bianco, alimentò disfida, che pareva Italia e Francia giocata da bimbi a fionde nei vicoli del Garofano Rosso. A dir di loro, la cassata – nel senso di censura, non di torta isolana – era infarcita di pregiudizio ideologico, che il libro del Tomasi, pure se pareva politicamente non correttissimo, era pur sempre capolavoro di scrittura elevata. La tenzone continuò a lungo, alimentata da rosso soave, arma impropria di guerra, solleticante ugole ad urla. Sinché tutto ebbe quiete, che il vecchio a banda ammise, a candido sorriso divertito dalla battaglia, che la lettera di Don Elio l’aveva letta per bene, che lì non c’erano i toni della censura, ma quelli pacati d’editor responsabile, con timido accenno all’incompletezza dell’opera. Incompletezza poi colmata nella pubblicazione definitiva da mano ignota, forse.

Che mi venne di quell’episodio metafora e morale insieme, che oggi due bande s’affrontano su campo assai più vasto, che di proprie verità fanno l’assoluto, come il reziario distrae il popolo bue dalla natura oggettiva dell’incedere delle cose, forse assai più semplice e pacata di contratti per bave alla bocca.