Un giorno che è tutto l’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che oggi non c’è discussione, che detto giorno – a nomina precisa di Liberazione – che fu primo è a merito che è tale solo se è inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna d’i’un molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere notte intera, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiare darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino per libecciata. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o poco più, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore.

Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello coetaneo mio pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellina ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di farne giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno o talaltro che anche per giorno uno come rimase, pare di far passeggiata a piede nudo su scoglio puntuto, sabbia nelle mutande e ortica sotto le ascelle.

E fortunato chi non ha capito!

Quel giovane autunno caldo di un certo numero d’anni fa (per pudore non confesserò quanti), insieme ad un gruppo d’altri che condivideva con me la passione per le posture statiche, me ne stavo incollato ad una panchina sul lungomare di ponente, quello dove il sole se ne va a dormire. Avevo smesso lanci di lenze, ma la bonaccia al porto non parve rispondere alle mie aspettative. C’era traccia di bestie grosse, scuotevano il mare al centro del golfo, ma s’erano fatte furbe.

Su quello di levante si vede sorgere, ma era assai improbabile che me ne stessi lì nel momento in cui la cosa avveniva, e posso testimoniare sotto giuramento che anche quegli altri avrebbero optato per un più comodo tramonto. Lì eravamo in attesa che il mare facesse col sole spuntino serale.

Proprio mentre sembrava di sentirlo deglutire, da un angolo della panchina, forse illuminato dalla suggestiva visione su cui anche Goethe ebbe a scrivere qualcosa, si sentì: “il mio sogno è un Duetto Alfa Romeo, color terra bruciata, usato”. Ora, quella dichiarazione improvvida, per nulla sollecitata, scosse tutti dal torpore cui ci eravamo dedicati sin lì con impegno, ed aprì una discussione feroce, e quasi si veniva alle mani. Sottolineo il quasi poiché, a raccontarla bene, il consesso non era particolarmente avvezzo a dedicarsi a certe fatiche fisiche, per di più a quell’ora tarda, proprio prima di cena e con lo scirocco che ti succhiava ogni ipotesi d’energia. Non vi fu, difatti, uniformità di giudizio su quella esternazione, poiché ognuno ebbe a che ridire su un suo aspetto particolare. Io, ad esempio, mi indignai perché ritenevo che il possesso di una macchina sportiva celasse sotto sotto una insana passione per la velocità, per l’attivismo, e ritenni la cosa inaccettabile. Una ragazza di cui non ricordo ormai nemmeno il nome (tanto meno il cognome nemmeno che faccia avesse), che spesso indugiava in quelle serate tranquille nella lettura di brani scelti da un Libretto Rosso che allora godeva ancora di una discreta fortuna editoriale, stigmatizzò con fervore autentico quello scivolamento mistico (tale doveva essere, viste le scarse fortune economiche del nostro) e borghese. Ci fu chi invece sindacò sulla scelta del modello, altri ebbero un travaso di bile per la scelta del colore. Ci fu tale altro che espresse il proprio disagio circa l’idea che l’auto dovesse essere usata: “se proprio te la sogni, perché non te la sogni nuova, tanto, in quanto sogno, non costa di più”! Credo che in quest’ultima critica si nascondesse un malizioso riferimento al braccino sottodimensionato di chi aveva dato l’incipit a quella serrata disfida dialettica. Insomma, la discussione si protrasse a lungo, poiché ciascuno volle dare il massimo risalto al proprio punto di vista. Poi, d’improvviso, cadde il silenzio. Come se fossimo stati illuminati sulla via di Damasco, ci accorgemmo all’unisono della stessa cosa, neppure osammo confessarcela. Avevamo visto l’inizio della fine. Il consesso si sciolse mestamente e negli anni successivi e sino ad oggi (non vi dirò nemmeno stavolta quanti anni sono passati), sono convinto che nessuno di noi non abbia pensato almeno una volta a quel giorno in cui siamo stati testimoni dell’ultimo vaticinio di Cassandra.

Radio Pirata 62 (per ri-sopraggiunto disgusto)

Mi viene a dispetto di statistica di frequenza di far puntatissima di Radio Pirata ché troppo mi pare ghiotta ragione di cronaca e pure ho dotazione di musica a sufficienza per mille mila puntate a schioppo d’uopo e che pare frustatissima di sound infinito. Puntata precisa di questa è di numero Sessantadue che pare ieri che iniziò grande avventura di detta emittente che si fece corsara e brigante insieme, ma che nulla rubò a povero per dare a ricco, nemmeno fece il contrario però, ad ammissione con cuore in mano, ché miserabile, a detta di smentita d’immaginario, non pare abbia dotazione per far furto con destrezza che altri fanno con estrema abilità assai meglio. Ed è ora che detto brigantaggio sia a canto esatto.

Si è chiuso grandissimo vertice di (robo)Cop28 con grande successo che si mise bambino goloso con chiavi in mano a guardia di dispensa con dolciume d’ogni fatta e gli si disse, a voce bassa, che non entri nessuno lì, ma tu ci hai chiavi, fai tu… Così a formula finale c’è sommo gaudio che ci si scrisse che c’è pure petrolio che brucia, ma che ci possiamo fare noi se a crepare siete voi? Che ci cambia assai clima che già stiamo a fatto di deserto? Pazienza. Stappo sciampagnino.

C’è tale a scarso ritegno che continua a che muore ora sotto gru, ora ad incidente di lavoro vario, che distratto. D’egli non parlo che ci fu consegna di silenzio. Mio giovane collaboratore si fece esperto di lavoro a miniera, che dica egli due cose in fila ch’io mi taccio che di lavoro poco m’intendo: «Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula, non aveva paura: né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in un stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.» (Luigi Pirandello)

C’è cosa che non torna in conto di grande economia che firmai io o firmasti tu? E pare cosa strana che c’è a litigio su chi fece cosa su cui tutti c’è gran concordia che a dichiararla, gran concordia intendo, c’è rischio di passar male tu o io. Allora io dico ch’è colpa tua e tu dici che colpa è mia, che teniamo posizione a gioco delle parti che c’è popolo bue che si beve barzelletta di gran differenza a fatto economico tra destra e manca (in tutti i sensi). Ancora ho a far ricorso a giovane collaboratore che di detti fatti di economia di latrocinio si occupò talora.«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia”. (Leonardo Sciascia)

Pure lascio spazio a parola d’altro giovane collaboratore per scarsuccia attenzione a fatto che avviene a Striscia, che là pare umanità a deraglio definitivo. Io di commenti dabbene me ne feci privo. «Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso. L’assassinio è quindi il tentativo di raddrizzare la follia di questa falsa percezione con una follia ancora maggiore: ciò che non è stato visto come uomo, eppure lo è, viene trasformato in cosa, perché non possa confutare, con un movimento, lo sguardo del pazzo». (Theodor Adorno)

Che nemmeno disdegno a far notizia di festona imminentissima – che io me ne torno a casa – che cominciò a gran scoppiettio stagione d’acquisto e si dispiegano le file, quali allegre processionarie, a sguardo a sorriso spento ed occhio a nulla estatico, di corsa ad accaparramento che non c’è domani… “con la massa degli oggetti cresce… il regno degli enti estranei a cui l’uomo è soggiogato. È lo stadio supremo di un’espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. Il bisogno di denaro è quindi l’unico bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che esso produca“. (Guy Debord)

L’antifuga

Mentre si fa vicina l’ora che mi dovrò ancora privare delle cose mie e metter su valigie e valigioni per condurne con me una manciata, mi sorge quella specie d’angoscia che si deve al viaggio mancato, meglio, interrotto, con quella fitta dentro che s’accompagna all’abbandono. Ancora mi concedo il rimasuglio di ciò che mi resta di tempo, per farmi esploratore del consueto, che mai mi parve finito di sorpresa. Quella forma lieve di ansia malcelata al cospetto della folla mi viene a soccorrimento per avventura. Mi fa guida per percorrenza dei miei stessi passi in ore impossibili, m’accompagna ancora verso le silenziose steppe del ricordo.

“Anche ora, anche questo, era come lo facesse in forza di sogno, per l’appunto come per un’ispirazione, e pensava che l’aria mezza da sonnambulo doveva proprio averla, l’aria di chi ripete di notte, a occhi chiusi , senza volontà né spirito, qualcosa che fece di giorno, un giorno, e un lontano giorno. Insomma, si muoveva come per un istinto, e si muoveva, faceva, come tentasse di combaciare, dopo tanti anni, col muccuso che lì, forse sulla stessa impronta di piede insabbiata, si metteva nudo e si gettava in acqua; ma la pelle del muccuso a lui gli andava ormai corta e stretta, ela sua, al muccuso, gli andava così larga, che l’infagottava tutto, e il suo pesce con la barba, tutto vero, di natura, al muccuso gli stava fuori misura, un affarecinese tanto spropositato per la sua taglia, che gli ingombrava i movimenti.

Anche la ‘Ricchia, anche quello specchietto d’acque rotte da scogli e sporgenze renose, finchè non si tuffò, ebbe l’impressione, dopo tanto, che gli sarebbe andato stretto e corto al nuotare.

Ma poi si piegò in avanti da una di quelle sporgenze di sabbia finafina, e dandosi una leggera spinta col piede come si varasse, s’infilò in acqua con le braccia, tese e strette, dietro la testa, scivolò giù slanciato, ma non scese profondo, subito riassommò e si sbracciò un poco, sbuffando dalle narici tutto trafficoso, per vincere il primo momento di freddo. Poi, cominciò a nuotare e dopo un po’ che nuotava, il corpo rioccupò la sua porzione di mare come ritornasse al suo naturale, dopo tanto stare a terra sulle sole gambe, col piacere e l’ebbrezza della prima volta quando gettato apposta in acqua da suo padre, si era scoperto a galleggiare e nuotare, mischiato all’acqua, tuttuno come un pesce. E allora sì, in questo, si trovò a combattere col muccusello di un tempo, perché nuotava e gli pareva di non avere più nuotato da quel tempo…” (Stefano D’Arrigo)

Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Contrappasso a perdere, in un 25 Aprile d’un giorno qualunque dell’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che domani non c’è discussione, che detto giorno che fu primo è a merito che è tale solo se fu inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna di molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere intera notte, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiar darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino di libeccio. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o due, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata, mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore. Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega pure, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellin ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di far giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno e talaltro che anche a giorno uno pare a camminamento con sabbia nelle mutande e ortica a sotto le ascelle.

Tasso d’usura

Fattomi ricco di struggente nostalgia di sale non riuscirei a far altro che non dir nulla, che dico uguale con già detto, che quello è meglio – se pare ti funziona dentro – del dirò che stride con voglia di non dire.

Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole.” (Giovanni Verga)

Che il mare, pure Lui come noi, cambia umore, che c’è ragione sempre che questo avviene.

Dopo che s’è fatto bufera pare che non voglia vedere nessuno, ma anche attrae attenzione di chi ha orecchie, occhi giusti, per guardare tra nuvole di sale, tra nebbia di schiuma, appena oltre, dove c’è un orizzonte che si sbiadisce a vista per tutto quel bailamme. Pare caccia chiunque, s’altera di un nonnulla, sventola a pericolo, strappa la vela, martirizza scogli e frangiflutto, sovverte la rena, miete praterie di posidonia, ne deposita il raccolto a terra aspra e odore acre di garum.

Poi è dato che si cheta, si mostra quale tavola a pialla, sinché occhio può andare. Appare di silenzio imperscrutabile. Ad aver da dire, a tacere al contempo. Si mette a calma piatta di fissità struggente, che con sguardo indagatore vi si cerca risposta a parola non data, che nulla è dato muoversi, nemmeno accenno di risacca a lambire scoglio d’attesa. Pure sotto la lastra pare non c’è voglia di parola, la dialettica è spenta sino all’ultimo singulto d’avannotto. Se c’è nuvola si riflette pari pari, non v’è voglia di reinterpretarne forma alcuna, copia conforme pare stanchezza immane d’esigenza di solitudine, rassegnazione di distacco.

A gioire di quelle forme sono solo occhi stolti e distratti d’incomprensione per non detto. Quello, il non detto, attiene a certe qualità d’anima che ne coglie essenze di dolorosa rassegnazione per inevitabile distacco. Chi si nutre del non detto sa che quello è narrazione d’autentica complessità. Che questa è terra che di bellezza fa sua condanna inesausta, che di figli che sono suoi e che tali si sentono, farà per forza a meno, che non c’è scampo alla partenza. E come fratello, padre, madre, sorella, lui è a sommo d’arguzia di sapere, di temere destino d’altri prossimi, che ad esorcismo esatto dell’io so, sostituisce il non dico che sarà strappo furibondo, mancanza di vertigine. Questa è terra che di bellezza fece condanna suprema, che mai vi fu a goderne senza patimento estremo di chi seppe coglierla. Fu terra ch’accolse chi non meritava accoglimento, che ne determinò violenza con fare sorprendente d’inumano. Questi rimarranno, a perpetrare l’orrore della trasformazione d’abbrutimento. Chi seppe che doveva stare a goderne non ebbe strumento di sopravvivenza, quale Argonauta dovette muoversi a cercare tesori d’effimero, porto salvo, come per veleggiare di barcaccia fenicia di pescatori di tormente, rossi di sangue e di porpore di murici. Terra che respinse i suoi figli d’altra sponda che Lui volle salvare da deriva. Talora Lui se ne fece carico, ch’è dato meglio una sofferenza d’istanti tra le braccia di sale generatore che l’orrenda, eterna, reprimenda dei vivi già morti, ad accusar d’essere nati a sponda diversa da quella data. Questa fu, è, sarà terra che fa a prezzo di strozzo prestito di bellezza, e pretende riscatto per essersene imbattuti a coincidenza d’esservi nati.

Colonne sonore

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La cerniera (reloaded per ulteriore sopraggiunto disgusto)

Bell’Italia – ormai – a(r)mate sponde, che qual puttana t’affascina di merletti e trini, di muscoli dorati e abbronzature UV, bell’Italia che reclami patrie e dei, financo famiglie a valori universali, che non mostrasti pudore per bimbi e donne e uomini che a costa antica di civiltà fanno morte per fame e sete e giù, in fondo al mare. E tu, Bell’Italia, in prima pagina ci metti Peppa Pig. Bell’Italia, che mi facesti passare pure voglia di scrittura a disgusto sopravvenuto, che per fortuna già scrissi. Abbellitaglia, sai che c’è? Ch’è meglio che non te lo dico.

“Me ne avvidi un giorno, uno solo per fortuna, come quel “c’era una volta” non additabile al tempo che fu, piuttosto all’unicità dell’accaduto. Ed era quel giorno che, dirimpetto al blu, m’ostinavo, sforzando gli occhi a ruga, a scrutare oltre la curvatura dell’orizzonte, sì come la vista potesse curvarsi per andare verso quell’oltre. M’avvidi di come quella lastra appena screziata di schiuma, come l’ardesia si tinge del gesso, fosse la cerniera che unisce civiltà e deserti, caldi opprimenti e favole nordiche di ghiaccio, suburbie tormentate e foreste lussureggianti, umanità stanche e civiltà morenti, giovani con gli occhi della speranza e vecchie incurabili disperazioni.

Ma dubbio non ce n’era, era la scoperta dell’acqua calda, anzi, dell’acqua salata, che a questo serve il mare, a mettere insieme, congiungere. E se c’è qualcuno di supremo, ce l’ha messo davanti per questo. Pure, sono propenso a pensare che il supremo non vi sia, e che se è lì quella vertigine blu lo è per scelta sua, all’uopo, appunto. E a noi non rimane che prenderne atto giacché così è, per fortuna nostra, una volta tanto. Poi, è vero, si mette a giocare a rimpiattino con chi lo scruta, si nasconde una parte segreta e lontana, curva dietro l’angolo, s’appronta alla sorpresa, te la fa emergere di botto, fosse una cannoniera di Sua Maestà o la feluca di miserabili pescatori scalzi, la zattera d’un naufrago o la crocierona dell’inchino, fosse anche solo la bottiglia col messaggio di papiro con l’”Help me.. per favore, non venitemi a cercare che qua sto bene”, o lo Tsunami che si riprende il mal tolto. Modella gli scogli con trama d’artista, forse per vezzo, talvolta per rabbia d’incomprensione, s’accolla fatiche antiche e ne restituisce d’altre con interessi da compro oro a strozzo. Se decidi che lo percorri lambendone le propaggini più interiori, e lasci orme sulla spiaggia nella speranza del ritroso, s’avviluppa su se stesso, quindi si rialza e ti cancella il passaggio, in una notte che ingoia la luna oppure in un mezzogiorno di fuoco e scirocco, meglio di libeccio, quando pare si faccia asciugacapelli a risparmio energetico. Cerniera, sì, che unisce due lembi che si cercano, come anime perse, che si annusano, si scrutano, e come innamorati aspettano l’una la prima mossa dell’altro, oppure, nel viceversa dell’ammiccamento, manifestano la certezza dell’incontro. Cerniera che salda le attese, e non le rende vane, semmai ne amplifica il senso definitivo oltre il tempo, le mostra quali essenziali vertigini della giostra a scapicollo. Cerniera del vedo e non vedo, che ti lascia il senso della scoperta e dell’approdo indefinito nella terra – forse – promessa, certo ritrovata. Ed è vero che, nell’intimo, poi uno le cerniere può aprirle, separare i due lembi, nell’intimo è cosa che si fa, pure con un certo segno di svago. Ma in pubblico, al più mostri le vergogne tue o d’altri. E ci sta che poi qualcuno se lo ricorda, e, passeranno mille mila anni, sghignazzerà per l’improbabilità di quel gesto contro la natura delle cose”

Tasso d’usura

Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole.” (Giovanni Verga)

Che il mare, pure Lui come noi, cambia umore, che c’è ragione sempre che questo avviene.

Dopo che s’è fatto bufera pare che non voglia vedere nessuno, ma anche attrae attenzione di chi ha orecchie, occhi giusti, per guardare tra nuvole di sale, tra nebbia di schiuma, appena oltre, dove c’è un orizzonte che si sbiadisce a vista per tutto quel bailamme. Pare caccia chiunque, s’altera di un nonnulla, sventola a pericolo, strappa la vela, martirizza scogli e frangiflutto, sovverte la rena, miete praterie di posidonia, ne deposita il raccolto a terra aspra e odore acre di garum.

Poi è dato che si cheta, si mostra quale tavola a pialla, sinché occhio può andare. Appare di silenzio imperscrutabile. Ad aver da dire, a tacere al contempo. Si mette a calma piatta di fissità struggente, che con sguardo indagatore vi si cerca risposta a parola non data, che nulla è dato muoversi, nemmeno accenno di risacca a lambire scoglio d’attesa. Pure sotto la lastra pare non c’è voglia di parola, la dialettica è spenta sino all’ultimo singulto d’avannotto. Se c’è nuvola si riflette pari pari, non v’è voglia di reinterpretarne forma alcuna, copia conforme pare stanchezza immane d’esigenza di solitudine, rassegnazione di distacco.

A gioire di quelle forme sono solo occhi stolti e distratti d’incomprensione per non detto. Quello, il non detto, attiene a certe qualità d’anima che ne coglie essenze di dolorosa rassegnazione per inevitabile distacco. Chi si nutre del non detto sa che quello è narrazione d’autentica complessità. Che questa è terra che di bellezza fa sua condanna inesausta, che di figli che sono suoi e che tali si sentono, farà per forza a meno, che non c’è scampo alla partenza. E come fratello, padre, madre, sorella, lui è a sommo d’arguzia di sapere, di temere destino d’altri prossimi, che ad esorcismo esatto dell’io so, sostituisce il non dico che sarà strappo furibondo, mancanza di vertigine. Questa è terra che di bellezza fece condanna suprema, che mai vi fu a goderne senza patimento estremo di chi seppe coglierla. Fu terra ch’accolse chi non meritava accoglimento, che ne determinò violenza con fare sorprendente d’inumano. Questi rimarranno, a perpetrare l’orrore della trasformazione d’abbrutimento. Chi seppe che doveva stare a goderne non ebbe strumento di sopravvivenza, quale Argonauta dovette muoversi a cercare tesori d’effimero, porto salvo, come per veleggiare di barcaccia fenicia di pescatori di tormente, rossi di sangue e di porpore di murici. Terra che respinse i suoi figli d’altra sponda che Lui volle salvare da deriva. Talora Lui se ne fece carico, ch’è dato meglio una sofferenza d’istanti tra le braccia di sale generatore che l’orrenda, eterna, reprimenda dei vivi già morti, ad accusar d’essere nati a sponda diversa da quella data. Questa fu, è, sarà terra che fa a prezzo di strozzo prestito di bellezza, e pretende riscatto per essersene imbattuti a coincidenza d’esservi nati.