Viaggio dentro il paesaggio

E visto che non mi fu consentito per causa di tempo tremendo di non farlo, mi piace, così, per celia, di parlarvi d’attraversamenti fotografici di paesaggio. Pure capita che il paesaggio è a presenza umana, che talune di dette presenze non mi sono ostili come tal altre. Dunque io quelle vi propongo che l’altre mi interessano assai meno. Ma vi faccio dettaglio di ciò che penso che, manco sarebbe da dire, questa è cosa che si fa a suono di musica giusta e precisa.

Quanti sono gli approdi di Ulisse? L’isola di Calipso, le Terre dei Lotofagi, i giardini di Circe? V’è stata una risposta potente e lunga millenni alla descrizione di un paesaggio fatta da un cieco, un semplice accenno tra vicende dal contesto universale per scatenare rincorse al toponimo che giustificasse una tappa fondamentale del viaggio più vertiginoso della letteratura. E vale lo stesso per certi scorci d’Oriente salgariani – come per i primi, sia pure per diversi impedimenti, mai visti – che hanno rievocato sogni e speranze di derive definitive. Più concrete appaiono certe divagazioni su tramonti indimenticabili nei taccuini di viaggio di Goethe, e poi quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno, suggestioni che fossero state immortalate da una qualsiasi pellicola o su qualche milione di pixel, non ci sarebbero giunte in fattezze così nitide e dirompenti. Poi l’invenzione della macchina fotografica ha spiazzato pletore di artisti e letterati costringendoli a cercare altre strade per delineare e trasmettere le suggestioni del paesaggio. Non si poteva più renderlo in forme perfette, più perfette di uno sviluppo almeno. In realtà, prima che la fotografia riducesse la natura descrittiva del paesaggio a pratica manichea ed estetizzante, rasserenante al punto da divenire materia utile per certe sale d’aspetto dentistiche, il volo di fantasia stampava immagini ben più profonde, giacché liberava l’energia del paesaggio, fosse anche semplicemente quello immaginato, e lo poneva in rotta di collisione – o in convergenza – con certe qualità dell’anima dell’artista, con le sue arguzie, talvolta con le sue furbizie.

Ed allora si può presumere che la fotografia abbia prodotto nell’artista l’effetto collaterale dell’insorgere necessario d’un approccio altro col paesaggio, non più meramente descrittivo, ma dialettico, un affare personale, un teté a teté allo specchio. All’artista, persino al fotografo più avveduto direi, quello cioè che non cerca patinature estetizzanti, il colpo di scena ad effetto della visione grandangolare del tutto e subito, neanche nebbioline trasognate, non rimane che interloquire col paesaggio, divenirne parte, attraversarlo per renderne l’essenza primordiale. Non può più lasciare l’impressione di conoscerlo, deve metabolizzarlo, incorniciarne il dettaglio, de-scriverlo, o meglio, re-interpretarlo, modificarlo se ne è il caso. In altre parole de-scrivere il paesaggio può voler dire scannerizzarlo nel suo invisibile, coglierne la molteplicità delle suggestioni, aggiungervene d’altre. Il paesaggio è tale poiché qualcuno l’ha attraversato e ne ha ricavato tratti della propria identità, la sua perfetta narrazione, dunque, non può esserne la sepoltura nell’istante cristallizzato da un click, piuttosto è la ricerca inversa che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le tracce del tempo che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto per un periodo effimero. Ma è lo stesso tempo che gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori depositati dal suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che il de-scrittore del paesaggio disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante. Questa ricerca non può non consumarsi dentro un percorso di riscoperta, che parte dai luoghi del proprio vissuto anche quando il senso d’abbandono li rende ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto collaterale di questo cammino di riscoperta identitaria diventa così la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, che ha scelto la disillusione dell’accelerazione parossistica come pratica quotidiana, ma che appare invece agli occhi di chi non se ne lascia irretire come irrinunciabile taumaturgia. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci”, diceva John Ruskin, e la deriva nel paesaggio, in quello concreto e materiale del quotidiano così come in quello della mente, è proprio un viaggio lento, dentro quei silenzi che in una condizione “urbana” e moderna non sono previsti, appartengono, per l’immaginario collettivo distorto, solo a certe valli antiche e remote. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito. “L’oscurità indietreggia davanti all’illuminazione e le stagioni davanti a stanze con l’aria condizionata: la notte e l’estate perdono il loro fascino, e l’alba sparisce. l’uomo della città pensa di allontanarsi dalla realtà cosmica e per questo non sogna più. Il motivo è evidente: il sogno nasce all’interno della realtà e si realizza in essa”. (Gilles Ivan) La reazione è la deriva nel paesaggio, lo scontro con esso, come per due enormi marmi michelangioleschi, la realtà materiale e la psiche dell’artista, che collidono liberandosi, scheggia dopo scheggia, frammento su frammento, delle sovrastrutture. Il risultato non è scontato, non appartiene ad un progetto ripetibile, si riarticola in senso dialettico ad ogni urto, rivela realtà sorprendenti ed insospettate in ciascuno dei due soggetti a specchio. L’opera finale non è perciò l’epitaffio d’un atto creativo, ad essa tocca di vagare ancora alla ricerca di nuovi orizzonti in un paesaggio di nuove menti, di nuove derive, di improbabili – e nemmeno certi – approdi. La deriva nel paesaggio, così, è alla base di tutto, diviene la rottura sistematica di ogni paradigma, d’ogni già visto, ma continua ad appartenere all’oggetto materiale che scarnifica sino all’essenza e reinterpreta come opera d’arte giacché lo circonda del vuoto. In pratica la deriva è due cose insieme, processo di esplorazione e tecnica di straniamento. “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela” (Henry Laborit). In entrambi i casi il risultato finale è la nuova scoperta, quella che non è tracciata sulle carte di navigazione, di “rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”. Impone che il paesaggio non sia definito secondo paradigmi assoluti, ma divenga il luogo d’esplorazione di un’atmosfera.

Nello straniamento l’oggetto paesaggio diviene un insieme di sensazioni che si riarticolano in un Kaos altro, postfondativo, unico ed irripetibile in quanto dipendente dall’osservatore. E persino il paesaggio degradato diviene contenitore di speranze, a patto che lo straniamento ne disarticoli le ragioni statutarie e lo rielabori dentro nuove consapevolezze. Lo spazio banale, evitato, de-costruttivo, viene filtrato dallo straniamento e diventa esperienza fisica, emotiva, contatto primordiale e silenzioso, la quinta scenografica su cui si depositano i presupposti della memoria. I quotidiani vissuti ed eteroposizionati creano la suggestione della trasformazione positiva e progressiva, la situazione che contrasta con l’esistente e ne muta lo stato di cose.

Il progetto di de-scrizione del paesaggio merita una premessa inevitabile in ogni caso, il paesaggio va attraversato lentamente, sia quello immaginato che si materializza in un sogno, una visione, una suggestione, sia quello vissuto, fosse anche quello che il paradigma estetico derubrica ad anonimo e degradato delle periferie di Suburbia. Eppure non può essere un attraversamento programmato, rituale, una ricerca chiavi in mano, piuttosto la situazione che si realizza poiché l’essenziale è solo contingenza. “Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea”. (J. P. Sartre).

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21 risposte a "Viaggio dentro il paesaggio"

  1. Mamma mia che disamina! Complimenti per la capacita’ di unire diverse specificita’.
    In quel fluttuare nato dalla consapevolezza della gratuita’ di ogni cosa , si percepisce , dopo la nausea , una grande liberta’.

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  2. Davvero notevole la tua disamima. In alcuni punti mi sono persa ma ho cercato di cogliere il filo del tuo discorso. Molto curiose le citazioni relative alla navigazione, le trovo un fiore all’occhiello. E condivido pure il pensiero che per osservare bisogna soffermarsi lentamente, gustarsi ogni dettaglio, ogni colore, ogni forma. In effetti, per quanto un fotografo sia abile nel cogliere un frammento di una vita effimera quanto un vapore, amo di più i pittori, quelli che non ci sono più che hanno fatto grande l’Italia secoli e secoli fa’… Michelangelo, Da Vinci, Raffaello, Caravaggio e molti moltissimo altri autori. Il fatto stesso che hanno condensato la loro immagine (oserei dire anche visione) in un dipinto lo trovo eccezionale. Invece trovo molto meno eccezionale scattare una foto,… Ma siamo animali sociali, adattabili e volubi perciò anche una foto se pensata e scattata bene può avere un suo fascino. È davvero una bella scoperta il tuo blog!

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    1. Leggendo il tuo commento mi viene in mente Baudelaire, la pensava come te sulla fotografia, la detestava. Affermava che chiunque avrebbe potuto ritenersi un’artista. Forse, in fin dei conti, aveva ragione. Ma non poté fare a meno di farsi ritrarre da uno scatto di Nadar, ne venne fuori un capolavoro.

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  3. A tratti mi sono persa….
    però la fotografia è un’arte se non è fatta tanto per scattare un clik. La fotografia va pensata, l’occhio deve arrivare oltre ciò che materialmente si vede, e questo poi si riflette nell’emozione che lo scatto rivela.
    Fotografare e attraversare i paesaggi con la mente, il cuore, l’anima…se sai “guardare”.

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