Ieratici, eretici (Allonsanfàn parte venticinquesima: oltre il martirio con Raffaello De Vito e Sergio Poddighe)

Difficile metter insieme artisti differenti quando si concepisce una mostra, la collettiva è straniante, spesso non raggiunge obiettivi narrativi comuni, nemmeno li sfiora, sono solo immagini alle pareti. Talora si sceglie il tema, l’artista lo esegue, certo con la propria sensibilità, ma, appunto, lo esegue, non lo partorisce, non è roba sua. Rarissimo vedere espressioni artistiche che si completano, pare autentico miracolo trovarne maturate a distanza, da esperienze lontane, storie diverse, mestieri – nell’accezione più ampia del termine – a tratti persino alternativi.

Le biografie artistiche di Sergio Poddighe e Raffaello De Vito sono talmente altre da non presumere che si sia realizzato il «miracolo» della convergenza evolutiva, che i due abbiano potuto concepire produzioni artistiche procedendo parallelamente, trovando una sintesi narrativa che si esprime in un unicum sorprendente. I due dialogano, intrecciano una dialettica serrata, paiono completarsi in un gioco di rimandi che pare studiato e che in realtà è idem sentire. Consapevolezza personale – il personale è politico – che trova vie di fuga nell’espressione creativa, procede sino a quella sorta d’imbuto dove le produzioni si toccano, si completano, si intrecciano. «Ieratici, Eretici» non è una collettiva, nemmeno una doppia personale, è una mostra sola con due volti che si guardano, che si cercano producendo alchimie preziose, si avviluppano in un complexus mai scontato.
Come si dice in questi casi, cominciamo dal principio, da ciò che fu il verbo e poco importa se dai soggetti ieratici di Sergio Poddighe o dalle presunte eresie di Raffaello De Vito. Sergio crede in una sorta di connaturata dimensione angelica dell’essere umano, una propensione a librarsi in volo. L’angelo lo fa, l’infernale precipita, sceglie una direzione differente per esprimere se stesso. Il volo è il sogno, l’avere una prospettiva altra, ricongiungere il proprio sguardo con l’infinito. La metafora dell’angelo è perfetta, ma quanto c’è davvero di sacro nel desiderio di sollevarsi da terra, e quanto invece non è un desiderio naturale di fuga, come fu per Icaro, forse più come Dedalo che pretese un’ascesa ancor più completa? È nella natura umana spingersi oltre, valicare confini asfittici, tracciati per limitare l’istinto di vagare per la terra, la libertà di movimenti che ha spinto interi popoli ancora più in là, sino ad ogni anfratto conosciuto, come se approdassero dalle nuvole in una dimensione altra.

E quanto quel volo è interrotto, consumatosi nella voglia di oltre che è nel fanciullo, proibito dalle catene della convenzione? Il sogno si snatura, le ali divengono organo vestigiale, come una coda mancata, il cenno d’artiglio d’uno smalto sintetico su unghie laccate. Il resto è progressiva amputazione, la perfetta rappresentazione della perdita d’umanità nel cerchio stretto del concreto, l’atrofia dell’organo del volo coincide con quella del desiderio primigenio, conduce all’asfittico del quotidiano. I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti esclusivi dell’apparire, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Il volo del bambino lascia spazio al vuoto dell’adulto. E questi vuoti l’umanità riempie creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla stessa concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione, è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano. Mentre questa ricomposizione passa proprio dal tornare indietro all’organo vestigiale, la sua definitiva riscoperta come condizione salvifica. Al contrario l’eterodirezione dei comportamenti è il vicolo stretto della disgregazione, dell’annichilimento, il martirio di soggetti comuni che hanno semplicemente rinunciato ad essere, non hanno osato la fuga tra le nuvole, non sono più angeli fanciulli, levati in alto dal desiderio primordiale dell’infinito vertiginoso. Poddighe ci racconta questo mancato ricongiungimento con gli strumenti che gli sono più congeniali, un surrealismo post litteram che ammicca alle cose di Breton, alle copertine stralunate delle Mothers of Invention, si esprime con caratteri originalissimi, si riconosce nell’uomo qualsiasi, nel giovane, nella donna, nel vecchio, che consumano il proprio doloroso disumano nell’anaerobico quotidiano. I soggetti di Poddighe sono talmente comuni da risultare invisibili, eppure mostrano senza pudore le proprie parzialità, mancano del doveroso silenzio della consapevolezza della propria drammatica condizione, sostituita dalla disperazione del vacuo apparire.
E quel martirio di cui narra è dentro il dogma d’una società obbediente, il dettato è preciso, la prospettiva esatta. È il processo educativo che conta, le masse obbediscono, il martirio delle moltitudini invisibili è scelta imposta, cultura dell’abbandono della propria emancipazione, la salvezza è altrove, non è di questo mondo. Il volo avviene solo dopo che le spoglie mortali si sono consumate nella loro essenza vitale. Raffaello De Vito individua uno dei più potenti strumenti di coercizione culturale nel martirologio, lo trova nei «santini», il promemoria formato tascabile che indica la strada, l’unica percorribile, il sacrificio estremo come unica prospettiva di salvezza. Raffaello se ne accorge, interviene su quelli, li riarticola e sostituisce l’educatore con l’educato, il soggetto diviene moltitudine dimenticata, non è più venerabile santissimo, è quotidiano sterminio. L’idea è quella d’un fake che amplifica la natura mantrica dell’immagine originale, in cui il soggetto poco importa chi sia, è fondamentale che dia al dolore ed alla sofferenza una componente salvifica che seppellisca l’istinto primordiale.
Non c’è passaggio umano, cambiamento d’una qualche fatta che non abbia preteso martiri, vittime sacrificali. Il santo è sempre – o quasi – martire, il miracolo è la prospettiva che scaturisce da quel martirio. Ed il martirio è una sorta d’espiazione per una condizione che è già di per sé sacrificale, appartiene agli ultimi. La devozione più profonda, pure nella religiosità archetipica, nella sua simbologia, è la rievocazione del sacrificio, il martirologio è punto di riferimento della fede, in realtà nasconde prospettive di trasformazione, di subalternità al dettato.
I Santini, tweet ante litteram, che raccontano vicende di sopraffazione, di martirio, appunto, hanno rappresentato per tantissimi una sorta di protezione dalla stessa tragedia. In realtà non ne hanno nascosto affatto l’evenienza ch’essa si presenti, nel qual caso appare ineluttabile, premessa per una vita altra di compenso. Ogni categoria sociale ha il proprio riferimento nel santo che ha fatto da parafulmine, ha pagato per i posteri, in qualche modo li ha liberati dal patirne le stesse pene. Ed è protezione semplice, a portata di borsetta, portafoglio, l’avvertimento che il cambiamento può avvenire solo attraverso il sacrificio, con l’esempio. Hanno iconografie apparentemente semplici i santini, al tempo ricercate, ché ogni dettaglio non appare superfluo, è narrazione atipica, semplifìcata ma esaustiva. Il punto è che la categoria degli ultimi, in definitiva dei martiri, non pare esaurirsi nella iconografia classica. Raffaello De Vito coglie l’enorme portata simbolica della trasmissione del messaggio sacrificale che era nel «santino», ne amplia la rappresentazione all’infinita platea degli ultimi. La sua è ricerca anche fisica, negli ambienti più consueti di quella presenza, chiese, monasteri e negozi di ecclesiastica. A quei soggetti ridisegna i contorni e non v’è in questo alcuna volontà blasfema, al contrario coglie la formidabile dirompenza di immagini iconiche di farsi mappe concettuali per veicolare i nuovi martirologi. Cambia i volti dei santi, le loro effigi classiche, i protettori degli ultimi lasciano solo impronte delle proprie gesta, cedono il posto alle nuove vittime della società involuta, fanno spazio a nuove immaginette che, come le vecchie, presumono d’avere capacità esorcizzanti il declino d’umanità private della propria stessa essenza.
La tecnica che Raffaello usa è raffinata, egli è conoscitore abilissimo di grafiche, fotografie ed immagini. Subordina le sue competenze ad un processo di riscrittura autenticamente «umano», trasforma il mito religioso in quotidianità, compie il passaggio inverso rispetto al canonico: il santo, nella iconografia classica, ha un nome, è la parte per il tutto, s’identifica nell’ultimo che si sacrifica per il resto d’intorno, per dare una possibilità ancora col proprio sacrificio, con la propria testimonianza ed opera, a chi soffre condizioni di privazione, di vessazione, di prevaricazione, sfruttamento, violenza; in epoche in cui l’esempio virtuoso pare ombra fuggente, quasi violazione di norme comportamentali non scritte ma esattamente codificate, nei santi di Raffaello è la pletora degli ultimi che parla in prima persona, si fa soggetto collettivo che produce voce corale. Il martire non è più uno, si fa moltitudine, schematizzata nell’immagine mutuata dalla tradizione. Ed il martirologio mostra la sua vera essenza, quella della sopraffazione legittima, anzi auspicabile per il mantenimento d’una condizione gerarchica, in cui il potere si legittima nella disfatta degli ultimi.

Questa di Raffaello è operazione coraggiosa, straniante come poche, in divenire giacché i nuovi martiri sono elenco che non pare abbia fine, donne vittime di femminicidio, di regimi feroci, vittime dei cambiamenti climatici, migranti sfruttati, bambini sotto le bombe, preda di pedofili, ma anche schiavi delle nuove tecnologie, e poi lavoratori che muoiono sul posto di lavoro, medici ed infermieri che hanno contrastato il Covid e che da eroi divennero nessuno. Ognuno può aggiungerne altri, quelli che gli pare, ché ogni ladrone ha la propria devozione.
E questa mostra si concede a chiunque la voglia, basta chiedere per averla (magari all’A/telier di Modica Alta), non c’è da pagar nulla, solo verificare se ci sono le condizioni materiali per trasferirla dove si vuole.


30 risposte a "Ieratici, eretici (Allonsanfàn parte venticinquesima: oltre il martirio con Raffaello De Vito e Sergio Poddighe)"

  1. Fate bene a donare loro spazio, ogni tot, è condivisione necessaria e arricchente. Sono artisti capaci di una lettura disarmante dell’attuale; vedo quel che vedo quotidianamente che poi è quel che non si vuole vedere ed impatta in maniera prepotente.
    Grazie a voi (e molto a loro, per le opere).
    🍷🍷🍷🍷🍷🍷

    Piace a 1 persona

  2. Una mostra a quattro mani è assai difficile da mettere insieme e un po’ come scrivere un testo a quattro mani. oppure creare un’antologia con più scrittori. Il tema può essere comune, ma ognuno ha la propria sensibilità artistica differente dagli altri.

    Dalle immagini inserite nel post e confermate dalla tua splendida presentazione invece si complementano come se l’artista fosse unico.

    Piace a 1 persona

    1. Devo dirti la verità immagino pure si possano comprare. Considera che i santini sono incorniciati i tabernacoli di legno piuttosto pesanti, credo siano alti una ottantina di centimetri e pesano diversi chili. I quadri sono anch’essi alti più o meno altrettanto, sono assai più leggeri. Per avere informazioni più precise però puoi contattare info@lateliermodica.it oppure direttamente gli artisti tramite il loro sito che è linkato nel testo. Io ho visto le opere dal vivo e sono ancora più sorprendenti di come appaiono in foto. A te grazie 🍷🍷

      Piace a 1 persona

Lascia un commento