Un’altra città

«La città in cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo. Non credere che si possa smettere di cercarla». (Le città invisibili, Italo Calvino)

La città è crocevia d’anime, non ha niente a che vedere con lo skyline di brutalità estetica delle megalopoli. Lì si consuma il delirio dell’isolamento carcerario delle coscienze, non è previsto il contatto tra gli sguardi, i corpi non si incontrano pur se si affollano. Ci si evita per definizione, finanche se intenti ad occupare lo stesso metro quadro, a respirare la stessa aria mefitica. La città d’oggi si esprime in cubature, non registra quella caparbia conquista dello spazio, non giunge a progettare i luoghi della condivisione, progetta quelli del consumo e basta. Quello diventa l’unica prospettiva condivisa, non c’è altro. L’altro viene derubricato a prassi desueta, non necessaria, soppiantato da uno spazio virtuale di falsi incontri, uno spazio di conquista violenta, di rivendicazione d’una identità che appare propria ma che si esprime attraverso parametri di compatibilità eterodiretti, eteroconfezionati. L’identità si spegne nell’istante in cui se ne rivendica virtualmente la difesa ad oltranza, contro il nemico alle porte, contro il dogma della merce respirata. Lo stile di vita pare scelta volontaria, non si avvede l’abitante della città mondo di quanto sia lontana l’idea d’una propria unicità. Pure soffre al pensiero stesso di poter essere unico, ché unico è sinonimo di diverso, di solitudine e la diversità è il nemico mortale della città contemporanea. Eppure si affolla di diversità dunque diventa essa stessa corruzione del suo paradigma fondativo, si fa contraddizione in termini. Vive per accrescersi, pretende di non farlo in un gioco al massacro che si conduce ad escludendum, verso la sconfinata periferia d’una riserva indiana di disperazione.

Nel gioco delle tre carte continuo per l’ultimo giorno ad aggirarmi per la città che fu, tra i vicoli antichi, alla ricerca di corpi, di anime, di sospiri di ciò che fu la ricerca imperfetta dell’incontro, dell’essenza dell’essere condiviso. Provo a trovarne la forza vitale, la respiro e l’avverto, contro l’idea di vita d’un modello d’altrove che si avviluppa nelle sue necrosi definitive.

P.S. Oggi, da queste parti, solo Mingus, per una ragione. Ieri facevano 45 anni che se ne andava a Cuernavaca, in Messico. Aveva cinquantasei anni. Quello stesso giorno cinquantasei balene si spiaggiarono in una baia messicana, forse, pensarono, era stata interrotta la loro ricerca imperfetta.

Vicoli

«Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch’erano a sera
un dondolio di lampade
dalle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza
.

Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s’udiva la notte un pianto
di cuccioli e di bambini.

Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch’è paura
di restare sole nel buio.
»
(Salvatore Quasimodo)

È consuetudine antica quella che mi spinge a lunghe esplorazioni dell’antico quartiere, e faccio carburante col caffè di Piero, alle porte di quello, prima di perdermi nei vicoli e nei silenzi. Lì non pare si faccia concessione al fasto di cartolina della città in piano, non c’è piano, le presenze sono ormai diradate, come le comode strade di basso, quelle con le vetrine più luminose. Qui vetrine non ce ne sono, solo silenzi da attraversare. La gente se ne è andata da qui, ci sono quinti piani termoascensorati con posto auto assai più comodi. Qualche sporadica presenza resiste, s’avverte nei panni stesi al sole, pratica assai desueta in piano, pare faccia cosa di scarso decoro, anche se profuma l’aria di sapone. Le mura non fanno sconti al tempo che passa, le porte cedono altrettanto.

Per le scale si vede solo qualche anziana signora che trascina un carrello di beni di prima necessità, come faccia per quei ripidi pendii che mettono a rischio le tenute dei miei menischi non mi è dato a sapere. Una di quelle mi offro d’aiutarla, ma mi sorride e prosegue, mi dice che non devo preoccuparmi, che lei va del suo passo e le serve farcela da sola. Non vuole abituarsi diversamente. Cerco il silenzio e lo trovo, non c’è altro se non il miagolio di un gatto, un cane, da qualche parte, abbaia per l’intrusione. Io sto lì, poco più in basso, non troppo.

E c’è pure casa mia

Ancora prossimo al piano ho pure dei vicini di casa. Man mano che salgo c’è solo il ricordo di antiche presenze, pare di sentire bambini nei cortili, donne che si chiamano dai balconcini, artigiani che rumoreggiano, le botteghe aperte di cui c’è persino memoria in insegne consunte. Un grande palazzo si fa strada tra i vicoli, le salite ripide, le scalinate ed i sottopassi. Ha mensole importanti, grottesche che un tempo facevano guardiania contro spiriti malvagi. Oggi hanno sguardi di noia. Dalle rare case abitate si leva intenso l’odore di un sugo, ma anche di qualche piatto lontano ed esotico, carico di spezie, ché lì migranti ce n’è qualcuno, a loro non importa qualche gradino in più da fare, nemmeno hanno scrupoli nel colorare dei panni stesi i vicoli. «Ciao amico» mi dice uno di loro salutandoti. Poi sento bambini che fanno partire una palla di gomma contro un muro, sono nati lontano, ora sono lì a riportare vita. Per fortuna avverto il tonfo del rimpallo, una voce stridula, suoni che non rompono il silenzio, si caricano di memorie, riattivano sangue in quelle arterie dimenticate. C’è emergenza abitativa da qualche parte.

La città perduta

V’è qualcosa d’ideologico, di ancestrale e fatto di paure nella voglia d’armarsi a difesa delle cittadelle fortificate del proprio quotidiano. L’appello a sparar cinghiali, abbattere il lupo, scannare l”orso, non è dissimile dall’affondare la nave che fugge da disperazione, che è a preferenza morto per annego che accoglienza. Tutto pare ricondursi a terrore puro d’invasione, invasione d’orrenda fiera a saccheggio di rifiuto, d’orrendo altro e reietto a rimetto in discussione stile di vita. Eppure l’uno venne a bussar alle porte della città che non ebbe più bosco per fare spazio a cemento, l’altro fu a condizione di schiavo e carne da macello per benessere di cittadino di posto civile, che casa sua fu messa ferro e fuoco da monocoltura e scavo di miniera per diletto d’altri che n’ebbero – a mistero fitto – paura. Or dunque quelli è ad invito ad imbracciar arma, a difesa di magione, presa d’assalto dal proprio agire d’inconsapevole parassita. E la città da difendere diventa il simbolo più elevato del vero assedio che fu di paura e null’altro. E della città parlai, ed ora riparlo par pari, che a tentacolo s’estende a spazzar via residuo di civiltà umana e di natura.

“Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza. Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse da quella l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.”

Marginalia

Mi venne a pensiero che pare che giornalettume vive a sommo di capo di pianeta sconosciuto d’altra galassia, che s’avvide d’improvviso che periferia è a mal messa, ricettacolo di violenza a banda. Che pare cosa di ora, ora che branco è a colore sbagliato. Che è tutto a grido a scandalo a fare tolleranza zero, ma non per manigoldo che magari intascò prebenda per costruire cubo trenta per trenta a stipo tutto disgraziume a raccatto, per quello c’è referendum a salvacondotto. Che bruttezza fa branco, schifezza di lavoro a sfrutto porta a faccio scorribanda, non è dato a pensiero d’analisi raffinatissima. Che io cosa così, che son nessuno, non so come dirla a ben benino e faccio che la dice altro me che è meglio. Io, al più, vi do immagini a contraltare di schifezza (spero) e faccio musica.

“Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello, o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza. Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse, da quella, l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.”

Se capita

V’è notizia, talora, che pare crogiolarsi d’effimero, che desta indignazione e sgomento il tempo d’uno sbadiglio, che evoca il “in che mondo siamo finiti” per un istante o due, di lunghezza variabile a righe di trafiletto. Vado di musica, così, per stemperare clima d’attesa spasmodica.

Che leggo, in giornale fa, che una tale signora settantenne, dunque non cariatide egizia, pensionata, che tale deporrebbe per frequentazione trascorsa d’ambienti di lavoro, si spegne su una sedia e lì ce la ritrovano dopo due anni, per sparizione dai radar in civilissima nazione con governo di migliori.

La notizia non c’è più, è cosa dimentica che è d’altro che alte sfere devono attenzionare, che non di certe condizioni urbane di autosepolture. Che pare, ad esempio, che d’acqua pubblica da qualche parte ne è rimasta, che quelle son cose che fanno gridare a vera indignazione, che occorre riempire arsenali, che PNRR va a tappe forzate in direzione di cosa seria, di pandemia non v’è che ricordo, che è abolita ex legis. Le solitudini appartengono ai solitudinari, mica sono problema sociale, che occuparsene è roba retrograda da collettivizzazione sovietica. Questo è paese reale, come appare in faccelibro, talk show papali, kermesse di outfit – che mi pare così si dice – di grande ed elevata ispirazione artistica, che se sparisce tale signora in quartiere superpopolato non è mica che per forza il capo si cosparge di cenere al resto del paese. Che uno vale uno. e se uno è nessuno peggio per lui o per lei, a seconda dei casi.

Che se a cosa così non ci dormo la notte è perché sono fatto male io, che pure mi ricordo da bambino che la vicina della vicina s’affacciava al balcone per capire se di là c’era adeguata scorta di pane e cipolla, pure chiedeva, che semmai divideva. Ma erano tempi miserabili, quelli si, che pareva che ognuno vivesse bene se vivevano bene pure quelli dirimpetto, in casa sganghera e gengie cariate, mica a lifting a tiratura perfetta e skyline d’archistar a taglio di nastro. Che un paese come quello che fu, mica può essere paese che cresce di PIL, è paese che si distrae per cose futili, umanità perdute, che oro vero alla patria non ne porta, se non si fa persuaso che liturgia d’accoglienza e d’ascolto a niente valgono, neppure a mercato nero o contrabbando di valuta. E le città queste sono diventate, deserti affollati, gulag, carceri a mezzo d’isola, che quelli ci avevano però vista mare e non spicchio di cemento a cornice di gerani. Ma, ripeto, è cosa mia che mi pare negativa, mica è detto che davvero lo sia. Che ci fu tempo che anch’io ero fatto male, e talora, mi appropinquavo a casa del popolo dove il solo aveva ascolto d’altro, ma financo sulle panche d’una chiesa capitava – mi dicono, ch’io non ci andai -. Che fu fortuna di tempi moderni che le prime divennero ristobar a cottimo, le seconde non lo so, che continuai a non andarci.

Artists only

Le città, talvolta – spesso, invero – paiono ventri ampi, pieni di interstizi misteriosi. Più sono moribonde, più aggrovigliano viscere, le espandono, pare lo facciano apposta, per confondere l’anatomo patologo dell’autopsia, che poi, a sopraggiunto decesso, deve scrivere qualcosa sul referto: arresto cardiaco, aneurisma, no, stipsi furibonda e definitiva. Tra gli interstizi si trova di tutto. C’è caviale e champagne, pure lustrini e splendori prêt-à-porter,, schifezze indigerite se ne trovano a iosa. Un mattatoio si colloca lontano dagli occhi, che l’orrore del fiume rosso non turbi occhi innocenti a desco su braciole. Poi capita che si dismette, si lascia lì, appunto, ai margini delle viscere.

Ne ho visto uno proprio ieri, solo che, morto come fabbrica di frammenti cadaverici, poi s’è resuscitato fabbrica d’arte, di gioco, di colore. C’entro, me lo giro sin dove posso. C’è ancora tutto quello che era, le passerelle per gli animali, in acciaio, i frigoriferi, magazzini, gabbie. Solo che ora è pieno d’altro possa sembrare più lontano. Maschere, dipinti, murales, statue e terracotte, sono ovunque, pure un palco, gatti, piante.

Tutto si ricompone in un caos sorprendente, generativo. M’accolgono Marco e Pamela. Pamela fa ceramiche, dipinge, crea costumi e maschere per carnevale con quello che raccatta e per i bambini: “per quelle puoi venire anche tu”, mi dice ridendo.

Marco, mezzo belga, per altra parte della Toscana dei cavatori, m’accompagna in giro. Faceva il decoratore, mi racconta di sé, mi mostra le sue cose, splendide, materiche. Ne ho viste di croste esposte in gallerie, gente quotata (ah, il mondo dell’arte, ops, dei critici, del mercato, delle prebende, la prima m’era scappata, me ne scuso). Mi dice che l’arte è morta per i più, che non si riesce a viverci, mi dice cosa gli piacerebbe fare, di quel posto che presto non ci sarà più.

C’è un senso di abbandono, ma a me piace quella strana atmosfera che trasuda dalle pietre, dai ferri arrugginiti, dalle assi di legno consunte, dalle piante che si riprendono spazi, ti riporta a dialettiche materiali, atti creativi. Lì sono rimasti in quattro che reggono come possono. Sanno che dovranno andarsene, fare altro, da soli non ce la fanno, né hanno più voglia di far guerra ai mulini. Si sono scordati di loro, col Covid è andato in malora quello che già non era messo bene. Ci avevano lavorato parecchio, pagato le bollette ci facevano teatro, concerti, mostre, attività con i bambini. L’area però è stata destinata ad un piano di riqualificazione. L’arte, è ovvio, non è qualificante, nemmeno riqualificante. È storia concreta questa, storia d’una civiltà che ha deciso di staccarsi la spina da sola, mi passa per la testa mentre ci salutiamo e ci diamo appuntamento per parlare ancora tra qualche mese. Questo è il paese delle apericene, che deglutisce amaro per le discoteche che non aprono. Che non s’avvede delle botteghe morte, delle osterie abbandonate, delle fabbriche dismesse, volumetrie utili a palazzinari. È il paese che s’assembra, che non ascolta, che non racconta, non parla. È il paese che brucia, che le mostre sono un parco auto nella Motor Valley, che il ghiaccio si scioglie perché l’aria condizionata non funziona. È il paese che si riqualifica, che cresce, la locomotiva dell’UE, lancia in resta, collezione di medaglie.

La città ideale

Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza. Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse da quella l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.