Un’altra città
«La città in cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo. Non credere che si possa smettere di cercarla». (Le città invisibili, Italo Calvino)
La città è crocevia d’anime, non ha niente a che vedere con lo skyline di brutalità estetica delle megalopoli. Lì si consuma il delirio dell’isolamento carcerario delle coscienze, non è previsto il contatto tra gli sguardi, i corpi non si incontrano pur se si affollano. Ci si evita per definizione, finanche se intenti ad occupare lo stesso metro quadro, a respirare la stessa aria mefitica. La città d’oggi si esprime in cubature, non registra quella caparbia conquista dello spazio, non giunge a progettare i luoghi della condivisione, progetta quelli del consumo e basta. Quello diventa l’unica prospettiva condivisa, non c’è altro. L’altro viene derubricato a prassi desueta, non necessaria, soppiantato da uno spazio virtuale di falsi incontri, uno spazio di conquista violenta, di rivendicazione d’una identità che appare propria ma che si esprime attraverso parametri di compatibilità eterodiretti, eteroconfezionati. L’identità si spegne nell’istante in cui se ne rivendica virtualmente la difesa ad oltranza, contro il nemico alle porte, contro il dogma della merce respirata. Lo stile di vita pare scelta volontaria, non si avvede l’abitante della città mondo di quanto sia lontana l’idea d’una propria unicità. Pure soffre al pensiero stesso di poter essere unico, ché unico è sinonimo di diverso, di solitudine e la diversità è il nemico mortale della città contemporanea. Eppure si affolla di diversità dunque diventa essa stessa corruzione del suo paradigma fondativo, si fa contraddizione in termini. Vive per accrescersi, pretende di non farlo in un gioco al massacro che si conduce ad escludendum, verso la sconfinata periferia d’una riserva indiana di disperazione.
Nel gioco delle tre carte continuo per l’ultimo giorno ad aggirarmi per la città che fu, tra i vicoli antichi, alla ricerca di corpi, di anime, di sospiri di ciò che fu la ricerca imperfetta dell’incontro, dell’essenza dell’essere condiviso. Provo a trovarne la forza vitale, la respiro e l’avverto, contro l’idea di vita d’un modello d’altrove che si avviluppa nelle sue necrosi definitive.
P.S. Oggi, da queste parti, solo Mingus, per una ragione. Ieri facevano 45 anni che se ne andava a Cuernavaca, in Messico. Aveva cinquantasei anni. Quello stesso giorno cinquantasei balene si spiaggiarono in una baia messicana, forse, pensarono, era stata interrotta la loro ricerca imperfetta.