Tanto per continuare a non chiarire

Non mi piacciono i contrasti, soprattutto quando il linguaggio che li alimenta non è lo stesso tra chi si concede la nobile tenzone del punto di vista. Qualche giorno fa ho avuto, se non proprio uno scontro, certamente una difficoltà in tal senso con una persona che anela, quasi disperatamente, ad un successo letterario. E mi ha affettuosamente rimbrottato per come tratto quello che produco, sia ciò che mando in giro con nome e cognome mio precisissimo, sia quello che invece non mi attribuisco, che lascio vagare – come avevo già scritto – in forma d’anonimo messaggio nella bottiglia, perché se ne vada dove vuole la sorte. Non pretendo vi sia attribuzione, nemmeno apporrò un copyright ad un’etichetta che mi si fece più interessante da leggere prima di svuotare il contenitore.

Non credo proprio di dover spiegare ulteriormente il mio punto di vista, non m’importa granché, forse non importa a nessuno. Prendo al massimo una cosarella tratta da un lavoro ch’ebbe ventura di girare su carta precisa e frusciante, che non fu racconto di scrittore che narra delle sue parole, ma d’artista che non s’affeziona alle sue cose.

«…Vede, quella dell’opera incompleta dell’artista che non si può vedere, per molti è un vezzo. Per me è un’altra cosa. Quando la devo completare, un’opera mi appartiene completamente. C’è l’atto creativo in corso, e quello è solo mio. Ho passato una vita a vendere le mie cose, e non le nascondo che me le hanno pagate anche molto bene. Ma solo le opere finite, che a lei sembrerà un’ovvietà. Ma se ci pensa un attimo, la parola opera e la sua aggettivazione più consueta, finita, sono in contraddizione. Opera ci dà un senso di dinamismo, di divenire. Finita è qualcosa che la contraddice. In fin dei conti, l’opera è viva quando appartiene solo all’artista che ci sta lavorando, quando non è definitivamente plasmata e ancora si trasforma, cresce, matura, cambia, impara, persino. Poi tutto quel fermento dell’atto creativo si esaurisce, l’opera è finita, non c’è più niente che la renda viva. Completare l’opera significa recitarne il de profundis. Io ho venduto solo i cadaveri della mia creatività, ho esposto per decenni i cadaveri delle creature che avevo messo al mondo, ed i collezionisti sono soltanto necrofori che comprano le spoglie mortali dello spirito dell’artista, il suo genio sepolto. Le loro gallerie, le loro abitazioni sontuose, ricche di ‘opere finite’, sono cimiteri. Solo l’artista vero conosce questo segreto e lo custodisce gelosamente. Gli altri sono mercenari che producono merci e cercano critici che recitino litanie al capezzale dell’arte che muore. Io sono un artista, mediocre, forse, superato, persino, ma sempre artista sono, e mi affeziono alle mie creature come una mamma ai suoi figli, per poi piangerle quando muoiono. Perché una mamma non dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli. Allora li lascio andar via, perché di loro non restino che le povere spoglie mortali. Ed è sorprendente che, nel mondo di oggi, siano solo quelle a valere.»

Ed aggiungo una piccolissima nota a margine, perché taluno obietterebbe che l’opera continua a vivere negli occhi di chi la guarda, come un libro nella testa di chi lo legge. Ed allora perché non dovrei cedere il testimone a chi si prende quell’opera, se io l’ho solo concepita e ad altri compete il tenerla in vita?

Divorzi

Che di primo acchito mi veniva pure di dargli un po’ d’attenzione a quell’altro me, di mettermi a parlare financo io di green pass, di vax e no vax. Che lui se ne fa cruccio. È che poi io non ci ho i titoli, e mi pare che l’ho detto che manco quelli di coda m’appartengono. Lui s’è fatto studi, e s’avvede che certi soggetti in giro s’assumono, per sé medesimi, aura di scienziati che gli viene di supporre, invece, che si sono presi la laurea con la Scuola Radio Elettra. Pure ce n’è di tali che la scuola suddetta l’hanno fatta per davvero, lì si sono fermati, e però parlano da candidati Nobelissimi. Che me l’ha detto mio cugino, che tengo un cognato che m’ha riferito. E lui mi viene a dire che gli pareva già strano che, al barrino del secolo andato, c’era gente che dettava la formazione a Valcareggi, che il montante di Marvin non valeva le danze di Ray Sugar. M’è toccato di porgli un freno, che già s’arrabatta male per il tutto d’intorno, non si dà tregua, s’angustia a sommo del petto. S’arrovella che il sotto traccia rimane tale, che non c’è spiegazione e commento del grave gravame che su tutti incombe, oltre la scorza e pure dentro. Che il fuscello pare albero piantato in terra, per radici profonde, che il tutto si palesa in niente ed il niente, di converso, s’atteggia a maximus. E io gliel’ho pure detto che merita si butti di piatto, che la smetta. Che certo, io parlo bene, che sono nessuno, mi dice. Ma dopo tanti anni di convivenza, io mi sono accorto d’essere pigro e m’assecondo, ma lui, invece, che pure tale è, non s’arresta manco a sparargli. Eppure anch’io, come lui, ho un sacco di cose da fare. Ed è questo che contraddistingue un pigro autentico. C’è una masnada di sciagurati perditempo che ciondolano senza intendimento alcuno, che si fingono indaffarati. Un pigro autentico è un’altra cosa, non è uno che non ha niente da fare, piuttosto da fare ne ha parecchio, ma passa pezzi consistenti del suo tempo ad evitare di farlo. È studioso attento dei percorsi, delle trame più o meno oscure del mondo che l’avviluppa. È capace, con la tenacia e la pazienza del pescatore, o del cercatore di funghi, di trovarne la soluzione nel non trovarne alcuna, nel mettersi in disparte, nel farsi gloriosamente nessuno. Questo mi piacerebbe che facesse, provo a traviarlo. Butto l’esca e me lo porto in giro senza muovere muscolo e piede, per vicoli solitari di lentezze e silenzi, che il dettaglio dà sempre quell’opportunità d’indugio che ti proietta nell’ozio totale e totalizzante.

Mentre godiamo, pro tempore, della nostra – finalmente – fissità ambulante, gli ricordo una cosarella che abbiamo scritto insieme tanti anni fa, quando ancora c’eravamo accomunati d’una qualche verve altra: “Perché cercare di capire adesso? Saranno le mie dita sottili o il profumo d’acqua e limone o gli occhi di una gatta che ha molte vite e poche spiegazioni da dare a stimolare curiosità ottuse? Pensa ciò che vuoi e dibattiti finché ti pare, agitati nella rete immaginando di essere l’ultimo o forse il primo e l’ultimo o solo uno dei tanti che riceve il trattamento speciale riservato a chi mi pare. Condurrò le danze e continua pure ad ascoltare ogni mio movimento, se ti riesce di cogliere qualcosa che possa darti risposte a domande che, come è chiaro, non sai porre. Perché non ne riconosci la troppa obliquità, la loro essenza di linee sghembe rispetto ad ogni risposta. Seguimi, adesso, approfittando della mia voglia di farti da guida prima che abbia un ripensamento, e ti abbandoni sulla riva di un acquario da dove potrai immaginare di cogliere ogni piccolo dettaglio dei tuoi naufragi. Dimentica la città-zoo. Non cercare vie di fuga diverse proprio ora che ne hai una vera. La tua ricerca rischia di essere vuota come le tue non-domande. Non ha conclusioni assolute ed interpretazioni oggettive, anche se ciò che è oggettivo è solo tale e quale a se stesso, quindi ancora insufficiente a garantire risposte. E smettila di girare intorno al problema, avvitandoti penosamente in un auto-assedio circolare. Il progetto circolare ha una sola tangente, e certo in quel punto dove s’afferma la prospettiva obliqua e angolare. È lì il quid del verso non sai cosa, verso non sai dove, la traccia della fuga dall’orbita scontata. Il cerchio è solo la banalità dell’opinione diffusa, del mi lascio tutto dietro, il punto d’accumulo orribilmente affollato. Vuoi forse un po’ di coda al casello? Vai pure, se è così, continua a girare solo intorno al centro svuotato. Ma se mi segui io lo riempirò di me sinché non esploderà lasciandoti senza cerchio e senza ingolfate prospettive, finalmente in fuga tangente e solitaria”.

Quindi scavo sul fondo di valigie disfatte da tempo, dove giacciono, giammai dimenticate, un paio di bottiglie di vino aspro e robusto. Le faremo fuori stasera, per accompagnare quel colpo di genio assoluto d’antica saggezza popolare, gli spaghetti al “sugo finto”, dove la carne è surrogata da semi di finocchietto che, per memoria esperienziale, riportano al gusto suggestivo di certe salsicce.

Ah, sul fondo della valigia ho altre cose, certo, cose che non occupano spazio, ricordi, note a margine, in ordine sparso. Pure mi sorge spontanea la domanda, mentre il soffritto per il sugo finto mi tiene vagamente impegnato insieme alla prima bottiglia: ma se decidessi di chiedere il divorzio dal cervello, quante possibilità avrei di vedermelo concesso? Senza dover pagare alimenti, intendo.

Osso, Mastrosso e Carcagnosso (seconda parte)

Vi mando la seconda parte dell’avvincente saga di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, mentre per la terza non mi ci appresto, almeno per ora. Mi sa che ve la scrive qualcun altro. E se non ve la scrive nessuno, pazienza, che come vi dissi, nella prima (ve la leggete qua, se vi va e ci avete tempo da perdere) io non ho i titoli, manco quelli di coda.

Qualche piccola repressione in qui e in là.

Agli inizi del ‘900, riprende con vigore la mobilitazione contadina nelle campagne siciliane. Al centro dell’azione dei braccianti è la costituzione delle Casse rurali, un’idea di credito alternativo per sottrarsi al giogo mafioso, agli usurai ed allo strapotere dei grandi possidenti. Nacquero le affittanze collettive che consentivano la gestione cooperativa delle terre. Alla mafia questa cosarella non andava granché bene, che se poi la gente comincia a vivere con dignità, ci sta che si mette strane idee in testa, che ne so, si mette a partecipare alla vita politica, non accetta più ricatti ed estorsioni, si fa pure convinta che c’è lo stato. Dunque, interviene con numerosi omicidi, tutti rimasti impuniti, di braccianti. Mi ricordo quello di Luciano Nicoletti e di politici della sinistra quali Lorenzo Panepinto ed il sindaco di Corleone Bernardino Verro. E siccome promettere costa poco, certe volte praticamente nulla, quando scoppia la 1° Guerra Mondiale, ai contadini gli si dice che al loro ritorno avranno la tanta agognata terra, che la cosa serve pure a scongiurare certi movimenti antipatriottici come il “Non si parte” di Ragusa. Dopo la guerra, chi s’è visto s’è visto, tanto parecchi non tornarono. Consiglio la lettura del libro Terra matta, di Vincenzo Rabbito, un contadino semi analfabeta di Chiaramonte Gulfi che racconta questo pezzo di storia dalla parte di chi l’ha vissuta direttamente. Un magnifico diario d’una vita disgraziata, selezionato per la pubblicazione con Einaudi a “I Diari della Pieve”. Comunque, tornando ai fatti, capita che qualche “testa calda” la terra che gli era stata promessa se la prende. La repressione dovuta al fuoco congiunto di mafia ed istituzioni ristabilisce l’ordine costituito e pazienza se ci scappa qualche centinaio di morti. Il commissario Messana fa sparare sui contadini a Riesi ammazzandone 15. La mafia, che quando si tratta di servire lo stato non si tira indietro, partecipa al massacro con l’uccisione di dirigenti politici e sindacali come Nicolò Alongi ed il segretario dei metallurgici Giovanni Orcel che operavano per unire lotte contadine ed operaie. Nel 1920, a Randazzo, la polizia uccide 9 manifestanti ed il giorno dopo fa sei morti durante un comizio a Catania. I casi di lupara bianca non si contano. Per fare ancora più ordine si arriva alle soglie del ventennio di modo che la violenza mafiosa si accompagni a quella delle squadracce fasciste. Viene, tra gli altri, ucciso il sindaco di Erice Sebastiano Bonfiglio. Si vede che qualcuno per eccesso di zelo esagerò, così fu inviato in Sicilia il prefetto Mori, che iniziò una campagna di repressione della mafia. Tuttavia, quel che è certo, è che venne rimosso non appena cominciò a colpire esponenti di spicco della criminalità organizzata ben inseriti nel nuovo assetto di potere. Pareva, insomma, che si potesse colpire solo la “bassa mafia”, quelli che Sciascia chiamava scassapagghiari, per cooptare invece le alte sfere dqell’organizzazione.

Il 10 luglio del 1943, gli Alleati sbarcano in Sicilia. Per anni si è sostenuto che la mafia ebbe un ruolo decisivo nelle operazioni, ma studi più recenti hanno chiarito che, se uno ne ebbe, fu piuttosto legato al controllo sociale postbellico, per limitare l’impatto politico legato alla ripresa delle lotte contadine. In questa direzione determinante è stato il sostegno mafioso al movimento separatista (il leader politico di quel movimento, Finocchiaro Aprile, già deputato e membro della Costituente, disse che la mafia, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla) ed al banditismo, per contrastare il “vento rosso del nord”. In effetti lo sbarco ebbe luogo in quell’area della Sicilia in cui la presenza mafiosa era pressoché irrilevante (le provincie “babbe”, stupide, di Siracusa e Ragusa, dove non succede nulla). È vero pure che molti mafiosi erano arruolati, anche con gradi importanti, nelle fila dell’esercito americano. Tra questi il boss Vito Genovese. Pure vi fu un intervento di mafiosi siciliani di stanza a New York per la “bonifica” del porto della città dalle spie tedesche. Il ruolo mitologico di Lucky Luciano è stato invece completamente smontato. Val la pena leggere, in questo senso, lo splendido e dettagliatissimo resoconto storico (interamente costruito su fonti ufficiali) dell’ormai raro “L’esercito della Lupara”, di Filippo Gaia, testo che, peraltro, fu acquisito dalla prima Commissione antimafia.

Le mobilitazioni contadine ricominciarono già nel 1944 e fu subito strage a Palermo, con l’esercito che apre il fuoco contro i manifestanti, uccidendo 30 persone e ferendone 150. Fatti analoghi si registreranno in tutta le principali città della Sicilia. Centinaia di migliaia di contadini si organizzano per chiedere l’attuazione delle riforme agrarie volute dal ministro comunista Gullo, ma si scontrano con la violenza mafiosa ed istituzionale, che lascerà sul terreno migliaia di morti, da Portella della Ginestra nel ’47, sino ai fatti di Avola del ’68. Sarebbe impossibile elencare tutte le vittime di questa violenza, tra cui donne e bambini, molte delle quali rimarranno dimenticate per sempre. Prima di essere ammazzato dalla mafia, il deputato comunista Li Causi, ebbe un sorprendente pubblico scambio epistolare, per tramite del giornale L’Ora di Palermo, col bandito Giuliano, autore “ufficiale” della strage di Portella, che accusava di essersi schierato coi potenti e non con i siciliani che dichiarava di voler proteggere dalle ingiustizie. Giuliano rispose: “Sono solo gli uomini senza vergogna a fare i nomi, e non gli uomini che tendono a farsi giustizia da soli, che mirano a mantenere alta la propria reputazione nella società”; Li Causi replicò: “Non capisci che Scelba, il ministro dell’interno, ti farà uccidere?”; Giuliano rispose a sua volta: “”So bene che Scelba vuole ammazzarmi, vuole giustiziarmi perché gli faccio vivere un incubo, posso fare in modo che sia portato a rispondere di azioni che se rivelate, distruggerebbero la sua carriera politica, e metterebbero fine alla sua esistenza”.

Nel 1961, Leonardo Sciascia pubblica “Il giorno della civetta”, che possiamo considerare come il primo vero romanzo sulla mafia. Mi cito, che ci ho un ego smisurato, con una cosa pubblicata qui ma anche altrove (in quel caso se l’è intestata inopinatamente quell’altro me che continua a rinnegare il suo essere nessuno): Sciascia, “allo specchio mette, ne “Il giorno della civetta”, il capitano Bellodi e il padrino don Mariano Arena, in un dialogo amplificato dal film tratto dal romanzo e per la regia di Elio Petri. In quell’occasione, Sciascia fu accusato di volere in qualche modo legittimare la vecchia mafia, tutto sommato permeata ancora da un “codice d’onore”. In realtà, alla luce della produzione complessiva del maestro di Racalmuto, pare piuttosto che emerga una sorta di tacito riconoscimento del padrino allo stato come proprio “affidabile” interlocutore. Nel breve spazio di un dialogo, Sciascia ripropone insieme la questione meridionale, la subcultura mafiosa, ma anche la sostanziale accondiscendenza dello stato, per un gioco delle parti protrattosi sin dall’Unità d’Italia, che ha consentito all’organizzazione criminale di divenire “una” delle tante espressioni manifeste del potere e di evolversi sino a dimensioni allora insospettabili. Insospettabili proprio per benevolenza istituzionale”.

Negli anni ’60, la mafia ha ormai rapporti stabili con la politica – nel ’57 viene ucciso il sindaco di Camporeale Pasquale Almerico, che non accetta l’ingresso dei mafiosi nel suo partito, la DC – e in una Sicilia che diventa sempre più terziaria e meno agricola, rivolge la propria attenzione all’affare gigantesco della speculazione edilizia, sostenuta dalla Cassa del Mezzogiorno. Emerge una borghesia mafiosa urbana sempre più dedita a traffici internazionali e protagonista del sacco di Palermo. Un primo piano, in questo frangente, se lo prendono il sindaco di Palermo Salvo Lima – ucciso nel 1992 – e Vito Ciancimino arrestato per mafia solo nel 1993.

La transizione è quinta di una cruenta guerra di mafia di cui sarà vittima nel 1963, tra gli altri, Cesare Manzella, fatto esplodere da un’autobomba. Un’altra macchina carica di esplosivo destinata ad alcuni mafiosi provoca la morte di sette uomini delle forze dell’ordine. Dopo la strage viene attivata la prima Commissione antimafia istituita l’anno precedente e che completerà i suoi lavori nel 1976, con la relazione di minoranza curata dal deputato comunista Pio La Torre e dal magistrato Cesare Terranova, entrambe vittime di mafia pochi anni dopo.

Il movimento antimafia, negli anni ’60, è condotto da minoranze al cui interno si sviluppa l’azione sociale di Danilo Dolci, che organizza gli strati popolari riprendendo modalità organizzative del movimento contadino. Ma anche le donne iniziano la loro battaglia e tra queste Serafina Battaglia che fa condannare gli assassini del marito e del figlio. Dice al magistrato Cesare Terranova: “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare non per vendetta ma per sete di giustizia la mafia in Sicilia non esisterebbe da un pezzo”. È morta dimenticata nel 2004. Come dimenticata è la vicenda della diciassettenne Franca Viola che, nel 1965, rifiuta il matrimonio riparatore con il mafioso che l’ha violentata, e lo fa arrestare.

Dal 1968 nascono gruppi politici alla sinistra del PCI che aggiornano l’analisi sul fenomeno mafioso, puntualizzando l’esistenza della borghesia mafiosa e chiedendo, già nel 1970, l’espropriazione dei beni mafiosi. Di questi gruppi fa parte Peppino Impastato, di famiglia mafiosa, che dai microfoni di Radio Aut denuncia le attività del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti. Viene ammazzato nella notte tra l’8 ed il 9 maggio 1978 con un delitto camuffato da suicidio.

Il 23 aprile dell’81, viene ammazzato a Palermo il boss Stefano Bontate. È il primo atto di una guerra di mafia che produrrà un migliaio di morti. A scatenare la guerra sono i Corleonesi di Totò Riina che puntano a beccarsi l’organizzazione. Il 13 settembre 1982, dopo dieci giorni dall’omicidio del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, viene emanata la Legge n. 345, frutto dell’unificazione di due disegni di Legge, il primo di Pio La Torre, il secondo del ministro Virginio Rognoni, che definisce l’associazione a delinquere di stampo mafioso e introduce la confisca dei beni mafiosi. Tra i perdenti della guerra tra i clan, c’è Masino Buscetta, che vede la sua famiglia sterminata e che si offre come collaboratore di giustizia nelle mani del giudice Falcone svelando l’organigramma di “Cosa Nostra”. Le dichiarazioni di Buscetta sono fondamentali allorché si costituisce il pool antimafia con a guida Antonino Caponnetto e per l’istituzione del maxi processo nel 1986, a seguito del quale verranno comminati decine di ergastoli e migliaia di anni di condanna agli uomini di “Cosa Nostra”. Misteriosamente il pool verrà sciolto.

A partire dalla fine degli anni ’70, comunque, la controffensiva antimafiosa di pezzi dello stato porta all’assassinio di un numero impressionante di uomini delle istituzioni, tra cui il Presidente della Regione Sicilia Pier Santi Mattarella, il deputato comunista Pio La Torre, il magistrato Rocco Chinnici con la sua scorta, Ciaccio Montalto, anch’egli magistrato, il procuratore Costa, i carabinieri Pietro Morici, Giuseppe Bommarito, Vito Levolella, Emanuele Basile, il commissario Beppe Montana, il capo della mobile di Palermo Ninni Cassarà, e tanti altri in una scia di sangue che si continua senza soluzione di continuità per un ventennio.

Le stragi

Il 12 marzo del 1992 viene ucciso Salvo Lima, l’uomo più potente della DC dell’isola. Il 23 maggio dello stesso anno viene compiuta la strage di Capaci (sul territorio di Isola delle Femmine). Gli attentatori fecero esplodere un tratto dell’autostrada A29 provocando la morte, oltre che del giudice Giovanni falcone anche della moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo, in un altro attentato muiono Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, in via dei Georgofili a Firenze, l’esplosione di un’autobomba imbottita con circa 277 chilogrammi di esplosivo, provocò l’uccisione di cinque persone: i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia Nencioni (9 anni), Caterina Nencioni (50 giorni di vita) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni), nonché il ferimento di una quarantina di persone.

Dopo 23 anni di latitanza, il 15 gennaio del 1993, viene arrestato a Palermo Totò Riina. Dopo l’arresto non viene effettuato il controllo del villino che sarà perfettamente ripulito da misteriosi ignoti (ma chi sarà stato? Mah, qualche amante dell’ordine e dell’igiene casalinga). Il 26 settembre del 1995, comincia a Palermo il processo a Giulio Andreotti che si concluderà con la sua assoluzione perché i reati contestati sino al 1980, tra cui l’associazione a delinquere semplice, sono prescritti, mentre per quelli successivi non vi sono prove sufficienti. Nel 2006 viene arrestato Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni. Già killer di Luciano Liggio aveva pilotato la “sommersione” della mafia. Appena arrestato, con un mezzo sorriso si rivolse agli uomini della mobile con un sibillino “non sapete cosa state facendo”.

Informare, da certe parti, fa male alla salute

Molti i giornalisti vittime della mafia per le loro inchieste. Cosimo Cristina, ucciso nel 1960, è un corrispondente de L’Ora come Mario De Mauro, ammazzato nel 1970, ed il giornalista ragusano Giovanni Spampinato, ucciso nel 1972 da un estremista di destra figlio del presidente del tribunale. Nel 1984 viene ucciso a Catania il fondatore de “I Siciliani”, scrittore e drammaturgo, Pippo Fava. Mauro Rostagno, giornalista ed ex militante di Lotta Continua, viene ammazzato per le sue inchieste su mafia e massoneria nel 1988 e, nel 1993, fu assassinato Beppe Alfano, corrispondente de “La Sicilia”.

Chiesa e mafia

Assai complessa l’analisi che si può fare dei rapporti tra Chiesa e mafia. Da una parte sono molti i preti uccisi per il loro impegno contro la mafia, come Don Puglisi. Durissimi gli attacchi dell’arcivescovo di Palermo allo stato che non contrastava adeguatamente la mafia. Di converso opachi sono stati i rapporti tra lo IOR e Michele Sindona, le posizioni del cardinale Ruffini che si rifiutò di condannare la mafia per la strage di Ciaculli negli anni ’60, e molti i preti accusati di collusione e condannati per questo reato. Un gruppo di frati del convento di Mazzarino furono condannati perché estorcevano il pizzo con la violenza negli anni ’50 (pagate fratelli, pagate). Il giornalista Cosimo Cristina che aveva denunciato i fatti fu “giustiziato” poco dopo.

E oggi che succede

Sull’oggi attendiamo nuove. È un dato oggettivo però che la mafia oggi non è più operativa solo nei suoi territori di origine, e che il suo sistema di relazioni politiche ed imprenditoriali sono ormai radicate ovunque. Così come sono evidenti i rapporti organizzativi e d’affari tra le varie organizzazioni che, in taluni casi, sembrano essersi suddivisi i compiti nella gestione degli affari illeciti. Ma, stante a quanto se ne parla, chissà che non avesse ragione Finocchiaro Aprile, che la mafia, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla.