Quasi trascendenze

“Il lavoro mi piace, mi affascina: posso stare ore ed ore a guardare la gente che lavora. Mi piace tenerlo accanto a me; e l’idea di liberarmene quasi mi spezza il cuore.” (Jerome K. Jerome)

Ho trascorso una settimana intera a far guerra da posto di lavoro che s’altera di gusto da fine percorso. Che poi per me far guerra significa tenere la barra dritta su presunte ragioni mie, al più ribadirle senza alterare il tono della voce, che d’urlo di dissotterro ascia d’assalto mi venne discreta noia. Ma a chi vuol far guerra pare che sia provocazione estrema trovarsi dinnanzi nervi da Giobbe, calme da pescatore di passo a tempo di libeccio. Francamente m’è addivenuto pensiero definitivo che sguaiarsi a sofferenza per affermare punto di vista su bazzecola di nessun conto sia d’inutilità conclamata. A far competizione ad ogni costo per «l’ho vinta io» non mi persuase mai essere idea buona, non almeno in contesti che degenerano con frequenza stagionale in nulla di fatto senza scampo. Tanto più se mi feci convinto di certe ragioni, nel qual caso sfodero flemme olimpiche in riva al fiume, pur se perdo spesso, v’è il dato di fatto che la corrente direzione non cambia. La verità è che ormai il virus del competere s’è impadronito d’ogni ambito umano, e si va dal conquistare un posto avanzato a fila di cassa, sino a sganciar bomba. S’è messo a farsi pandemia finanche in contesti di lavoro come il mio in cui l’unica vittoria possibile non fu mai personale, si rende collettiva per forza, nemmeno ci s’attende cinga teste d’alloro. Ed invece la ricerca del primato, della supremazia, la costruzione effimera di gerarchie tra pari sempre e comunque ha pervaso gli animi di fine anno. La ricerca d’applauso, riconoscimento onorifico che sa di nulla sotto vuoto spinto, elargizioni di «che bella e brava», sono sommo traguardo di personalità complesse, anzi – me ne feci persuaso – incompiute, traballanti, fragilissime di nervi e posture.

Al perché, dopo lustro su lustro di convivenza non troppo serenissima, per crescendo di anno in anno di tensioni, trovai risposta: e si, care colleghe, cari colleghi che sclerate come se foste assaliti da torme di formiche assassine, a modo che vi stiate sfogando da morso di tarantola, sbroccate a pari che v’avessero colmato di sabbia le mutande, urticati da ortiche ogni centimetro di sensibilissima pelle viva, se ci avete una vita di merda, io che c’entro? Se vi riversate con feroce digrigno di denti su ogni creatura v’accompagna in percorsi di lavoro, a tentativo estremo d’emergere a sgomito, e trovar lieto alloro per capo fulgido, a sfogar patologie di narcisismo, che colpa ebbero quelli che la vostra vita nemmeno sfiorarono per legittima ritrosia? Se ci avete una moglie o marito coglioni, menefreghisti, compulsivi d’ogni malefatta, se avete figli che non vi riuscirono un granché, questo capita, ed ammesso che voi ne abbiate qualche responsabilità e che non ve ne sottraeste a tempo debito, nemmeno riusciste a porvi rimedio, fatevi un amante, trovatevi un passatempo, scolatevi un litrozzo buono che vi fa buon sangue, passeggiate nel bosco, anche solo statevi seduti a guardare il nulla infinito, cucinatevi cose preziosissime, sdatevi finché potete, ma, per favore, ricordatevi che il lavoro non è l’istituto della compensazione. Quello è già sofferenza di suo.


37 risposte a "Quasi trascendenze"

      1. Ah, pensavo di aver esaurito tutti i libri sul tema.
        Sì, Giobbe è proprio la dimostrazione che inc*si è giusto, soprattutto di fronte a palese ingiustizia (tra l’altro, una “scommessa” tra Dio e il diavolo, alle sue spalle).
        Brutto trattamento riserverei ai cosiddetti “falsi amici di Giobbe”.

        Piace a 2 people

Lascia un commento