L’uomo e il mare, l’immagine si fece verso (o fu il contrario?)

«Uomo libero, sempre amerai il mare!
È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima
nell’ infinito muoversi della sua lama.
E il tuo spirito non è abisso meno amaro.

Divertito ti tuffi in seno alla tua immagine,
l’abbracci con lo sguardo, con le braccia e il cuore
a volte si distrae dal proprio palpitare
al bombo di quel pianto indomabile e selvaggio.

Siete discreti entrambi, entrambi tenebrosi:
inesplorato, uomo, il fondo dei tuoi abissi,
sconosciute, mare, le tue ricchezze intime,
tanto gelosamente custodite i segreti!

Eppure ecco che vi combattete
da infiniti secoli senza pietà né rimorso,
a tal punto amate le stragi e la morte,
o lottatori eterni, o fratelli implacabili!
» (Charles Baudelaire)

Del perché fotografo il mare assai più spesso in bianco e nero, anzi con ingiallimenti che paiono vuoti di memorie perdute, scrissi altrove, ma pare fatto evidente che ne feci una passione esclusiva per nostalgia a tratti struggente. Ma di memorie, versi, immagini sbiadite me ne sovvengono tempeste. Mi piace ripubblicare una cosa però, che le parole e le immagini non sono cose troppo diverse. Che poi ho idea c’entri anche la musica… e un bicchiere di vino.

«Ne frequento tanti d’artisti, scrivo di loro in giro, pure qui mi sono fatto una rubrichetta per parlarne. Dunque, quello che dico adesso non vale per molti di questi in questo spazio virtuale, ma è assioma per un pezzo consistente di quello che chiamiamo mondo dell’arte. Se viviamo in un mondo di confini, tracciati a lapis da aspiranti Stranamore, almeno dagli artisti si auspicherebbe che lavorassero per cancellarli, con ghirigori di pennellate, montaggi cinematografici, arzigogoli linguistici che si oppongono alle rette vie delle frontiere, ai passaggi obbligati delle dogane. Gli artisti non lo fanno, cadono nella trappola del confine o, masochisti, anelano a caderci in cambio d’oboli e prebende un tanto al chilo. Si specializzano, nel narcisismo più patologico ritengono la propria forma d’arte come unica e la propria produzione al di sopra d’ogni altra. Interpretano le altre forme espressive come didascalie, note a margine della loro opera immaginifica. Alimentano Ego smisurati, si negano al confronto, lo rifiutano perché sono soltanto macchina di propaganda per l’ingegneria della costruzione del confine mentale, preludio ancestrale a quello fisico, al muro, alla separatezza, all’allontanamento del diverso. Ne ho conferma quotidiana. La specializzazione dell’artista è il confine della provincia, nel senso più becero del termine.

È il sacrificio definitivo dell’uomo senziente richiesto dalla società dello spettacolo. L’artista diventa grottesca parvenza di creatore del nulla in forma di confine inviolabile. Io sono perché sono, oltre il muro non c’è niente. La propria narrazione dogmatica è terrapiattismo per definizione, invoca la finitezza del mondo, erge muri, ed i mercanti – potenti secondini adorati nella più orrenda delle Sindromi di Stoccolma – assecondano quel desiderio di separatezza con le “fiere dedicate”, gigantesche gabbie in cui vale il prezzo, non l’opera. L’arte deve essere specializzata, non deve aprirsi alle narrazioni eterogenee. I critici si occupano di una cosa sola, sono la quinta colonna del niente virtuale, dell’arte che non c’è, della violenza del capitale che deglutisce ed espelle feci d’atti creativi.
Vi propongo una cosarella di qualche tempo fa, a mò di principio di riflessione.

“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.

Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumula­zione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”»

A parziale giustificazione d’una ripubblicazione, pure una riproposizione, e per parole e immagini.