In Contemporanea, in estemporanea

È ottima idea quella di istituire la Giornata del Contemporaneo da parte dell’AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), soprattutto in evidenza dello stato di cose nel mondo dell’arte in questo paese. Le prospettive non sembrano essere più rosee per il futuro, dunque, battere un colpo non è cosa di trascurabile rilevanza. Far bilanci sullo stato dell’arte contemporanea in Italia sarebbe comunque arduo, l’ambito pare sempre più relegato ad una nicchia estremamente specializzata, dentro cui l’artista tende progressivamente a perdere centralità a favore d’altri soggetti. L’arte non dialoga con altro se non con se stessa e, di più, a costruire tale dialogo non sono più nemmeno i soggetti che vi sono deputati, soppiantati nella propria capacità decisionale da regole altre, eterodirette, mercantili, d’appartenenza quasi religiosa a scuderie di critiche e curatele. I luoghi dell’arte paiono cittadelle fortificate, che si concedono per liberalità del principe ad apparenza di libera fruizione, purché non se ne rimetta in discussione l’edificazione, il funzionamento della macchina.

L’A/telier di Modica Alta (se ne parla ancora qui), crea una rottura paradigmatica rispetto all’esistente, perché non compete con le grandi istituzioni culturali dell’arte contemporanea, non costruisce l’evento dirompente ed archetipico, sposta il confronto in una dimensione altra, non convenzionale, estemporanea, crea il non luogo dell’arte per tornare all’arte attraverso una sua narrazione altra.

La sua adesione, insieme agli artisti di MATT’Officina (di loro, del loro spazio, se ne parla qui), alla giornata dell’8 Ottobre rivede la logica del taglio del nastro, la fascia istituzionale, la fanfara. Sostituisce la liturgia del consueto con la pratica all’interno d’un contesto spiazzante, il quartiere, la strada, il centro storico che si spopola, che non riesce a farsi spazio in angoli di cartolina, dentro la contraddizione delle città che ridisegnano il proprio skyline di modernità, rimuovono la dialettica sociale, i sistemi di relazione. La città convenzionale che ospita il “contemporaneo”, è quella che si è palesata: “Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero artistico, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali.

Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.” Dunque, si prova a far altro, con apparente follia. Con la quinta aperta dell’esposizione di Pamela Vindigni e Unica (qui), gli artisti associati di MATT’Officina, Pamela Vindigni, Grazia Ferlanti, Marco Terroni Grifola, Giuseppe Kastano, Wildart, Luca Del Guercio, sulla strada, in via Pizzo, a Modica Alta, produrranno arte, in estemporanea, dialogando tra loro, con chi interviene, con chi è solo di passaggio, col contesto, riesumando fantasie sepolte, condivisioni che parevano perdute per sempre.

La fanfara sarà la chitarra di Stefano Meli (qui), capace di rifilare staffilate metalliche e polverose alle traiettorie desuete del convenzionale, far vibrare note d’esplorazione di spazi aperti sulla vertigine di imprevedibili infiniti. Quegli infiniti che l’arte “giusta” preserva per sé e per chi ha occhi giusti a guardare, certe qualità dell’anima che non s’attestano sulle posizioni di banali obbedienze.