La lungimiranza è un ponte lunghissimo

Benissimo, adesso sono nella condizione di chi ormai è ad un limite dall’abbandonare linguaggi dabbene, mi scappa l’istinto coprolalico di sputare fuori la bestemmia, l’improperio definitivo. Che poi, avendo frequentato bettole da retroporto tra le più sgangherate, osterie sperdute in periferie deserte, quartieri diruti, di sconcezze ebbi modo d’ascoltarne, e talune me ne verrebbero ora d’utilità, tutte in fila, appassionatamente, e mi parrebbero poche. Ma ancora reggo, non so fino a quando, reggo però. Allora, ieri m’ero messo a sfogo. Oggi non ce la faccio, mi limito a constatare che ieri, a scarso giro di ore dal cordoglio per la storia d’indignazione – non troppo – collettiva dell’uomo indiamo abbandonato moribondo, un diciottenne è morto schiacciato da un trattore. Diciott’anni mi paiono pochi, ma pure assai di più se crepi che te ne vai a far fatica. E poi è guerra d’ogni parte, dispersi che son tali che a dire annegati porta male, carte costituzionali sepolte. Ma il problema è se Ursula ha i voti. Ma pure che bisogna far presto a tirar su sto benedetto ponte, servono rapidi trasferimenti di acque minerali che in Sicilia si muore di sete. Basta, non scrivo più niente. Riciclo cosetta di giusto tre anni fa, se v’aggrada, che pare scritta domani.

«Qualche volta dispongo la prua verso l’interno, non per distacco verso il mare, piuttosto per desideri di riscoperta. L’altopiano è luogo dell’anima, con i suoi silenzi e i maestosi carrubi che paiono vigilare sul viandante, cheti, ombrosi, antichi. Immensi monoliti di roccia bianca solcati da rughe, talune talmente profonde che le chiamano cave, percorse sul fondo da torrenti che talora ancora sopravvivono, e s’aprono strade turchesi riparate dal sole, tra il verde smeraldo d’ogni essenza. Sono fiumi che hanno nomi di divinità antiche, forse sono davvero quelle divinità, tramutate in lacrime per il fallimento d’ogni loro progetto planetario, soverchiato dal dio più feroce che s’alberga tra noi. M’intrattengo spesso sulle rive di quelle lacrime, che i profumi s’inseguono ai colori, ed i sensi si confondono gli uni con gli altri, in una sorta di stupefacente percezione psichedelica. Quando il tramonto rende il rosso alle pietre, ed i sassi cominciano a far sentire la loro intonazione, la predica definitiva d’una storia che ha dimenticato il tempo, m’intrattengo ad ascoltarli che c’è da imparare da quel racconto. Lunga narrazione, del tempo quando non c’era il tempo, terra di Lestrigoni e d’ombre, di ninfe e semidei. Cacciatori cortesi d’avventure, si scavano nascondigli per pudore d’esser sgamati nella loro più intima essenza. Il silenzio è capace di rimbalzare ogni dettaglio di quella storia senza levare un sopracciglio, solo che s’abbia voglia di percepirne il bisbiglio di vertigine.

Ed il pascolo è d’oro e le mucche, che non amano assembramenti, a distanze di sicurezza l’una dall’altra, s’accostano all’erba sopravvissuta all’afa del giorno. Lassù pare che si trovino a loro agio sopra ogni cosa, pur se m’avvedo di qualcosa che non funziona, che quel pascolo, che sa d’Arcadia, lì non c’entra. Dall’alto mi spingo con lo sguardo oltre il punto di vista della mucca, che ancora mi pare avere dignità che non intendo sottovalutare. Sinché non m’avvedo delle ragioni dello stridio, che quello spettacolo, in altro contesto, m’avrebbe illuminato d’immenso ed ora m’inquieta. Che quel pascolo lì non doveva esserci, poiché, sino a qualche settimana fa, lì c’era il lago che porta il nome della Santa. Pure lei – mi sa – non deve avere lavorato granché bene. Accetto, si l’accetto, il punto di vista felice della mucca e delle sue consorelle, ma tinche e trote? Evaporate anch’esse.

Qualcosa che non va c’è. Che poi se la cerco la trovo pure, che d’acqua da certe parti si muore, d’altre, per sua assenza, si crepa.»

Grandi fortune

Mastro Don Gesualdo Bufalino aveva a dire «questo luttuoso lusso di essere siciliani» se ci azzecco a memoria. Ma egli si sbagliava di grosso, che pure io pensavo fosse così, fatto di lutto, ancorché condito da quella nostalgica devianza d’un lusso sepolto da polverosa coltre di storia. E invero si trattava di fortuna che quella polvere crebbe ad essere raffinatissima fortuna, secca ed arida come un tormento che appartiene a pochi eletti, quelli ch’ebbero, appunto, fortunata sorte di nascere a furor di sole.

Ed a gradimento di detta fortuna che vi rigiro una cosarella che già ebbi a pubblicare tempo addietro, non senza prima sollecitarvi fantasie con un’immagine che invece la precedette di poco tempo per fantasia di com’eravamo e più non siamo, semmai verrà giorno che risaremo.

«Qualche volta dispongo la prua verso l’interno, non per distacco verso il mare, piuttosto per desideri di riscoperta. L’altopiano è luogo dell’anima, con i suoi silenzi e i maestosi carrubi che paiono vigilare sul viandante, cheti, ombrosi, antichi. Immensi monoliti di roccia bianca solcati da rughe, talune talmente profonde che le chiamano cave, percorse sul fondo da torrenti che talora ancora sopravvivono, e s’aprono strade turchesi riparate dal sole, tra il verde smeraldo d’ogni essenza. Sono fiumi che hanno nomi da divinità antiche, forse sono davvero quelle divinità, tramutate in lacrime per il fallimento d’ogni loro progetto planetario, soverchiato dal dio più feroce che s’alberga tra noi. M’intrattengo spesso sulle rive di quelle lacrime, che i profumi s’inseguono ai colori, ed i sensi si confondono gli uni con gli altri, in una sorta di stupefacente percezione psichedelica. Quando il tramonto rende il rosso alle pietre, ed i sassi cominciano a far sentire la loro intonazione, la predica definitiva d’una storia che ha dimenticato il tempo, m’intrattengo ad ascoltarli che c’è da imparare da quel racconto. Lunga narrazione, del tempo quando non c’era il tempo, terra di Lestrigoni e d’ombre, di ninfe e semidei. Cacciatori cortesi d’avventure, si scavano nascondigli per pudore d’esser sgamati nella loro più intima essenza. Il silenzio è capace di rimbalzare ogni dettaglio di quella storia senza levare un sopracciglio, solo che s’abbia voglia di percepirne il bisbiglio di vertigine.

Ed il pascolo è d’oro e le mucche, che non amano assembramenti, a distanze di sicurezza l’un dall’altra, s’accostano all’erba sopravvissuta all’afa del giorno. Lassù pare che si trovino a loro agio sopra ogni cosa, pur se m’avvedo di qualcosa che non funziona, che quel pascolo, che sa d’Arcadia, lì non c’entra. Dall’alto mi spingo con lo sguardo oltre il punto di vista della mucca, che ancora mi pare avere dignità, che non intendo sottovalutare. Sinché non m’avvedo delle ragioni dello stridio, che quello spettacolo, in altro contesto, m’avrebbe illuminato d’immenso ed ora m’inquieta. Che quel pascolo lì non doveva esserci, poiché, sino a qualche settimana fa, lì, c’era il lago che porta il nome della Santa. Pure lei – mi sa – non deve avere lavorato granché bene. Accetto, si l’accetto, il punto di vista felice della mucca e delle sue consorelle, ma tinche e trote? Evaporate anch’esse.

Qualcosa che non va c’è. Che poi se la cerco la trovo pure, che d’acqua da certe parti si muore, d’altre, per sua assenza, si crepa.»

Radio Pirata 39 (a scanso di liquefazione)

Radio Pirata si piglia il Trentanove, con giusto cipiglio di conguaglio con temperatura ad esterno che in casa pare forno acceso. Pure m’adeguai a indicazione di migliorissimo tra migliorissimi che disse che è fatto di pace non accendere condizionatore ed a boccheggio agonizzo per amor di patria a canna del gas esausta. Poi m’avvidi che non lo accesi che non ne possedetti alcuno. Che vado di musica come si compete a rango istituzionale di radio.

Che cambio di clima pare si sia appalesato senza invito con acqua a razionamento, che pone quesito su come produrre gavettone libero per ragazzo ad esame scongiurato. Proposta di legge potrebbe essere ad uso prosecco, ma c’è opposizione ferma di patto atlantico che impone utilizzo di bevanda a gusto di ciodue e melassa appiccicaticcia per accordo internazionale, pure per fatto d’evidenza che vigna si innaffia male e produzione rischia tasso alcolico a straripo, che tanto fiume a straripo non ci arriva, meglio a sputacchio.

Fiume a sputacchio è grande di impiego a turismo che disvela imbarcazione di guerra a riemersione da secca che a riciclo diventa merce da parco gioco che addestra giovane creatura di campo estivo ad amore naturale per bomba. Inaridimenti musicali non sono previsti.

Che c’è grande apprensione che paese è vittima di querelle come mai prima, fatto ad arrovello genialità d’ogni livello, alimenta dibattito coltissimo per amore di verità che alfine non è dato di chiarezza prezzo esatto di Pizza Margherita. Che si potrebbe abbassare esso stesso ad utilizzo parco e misurato per impasto di Champagne, che è cosa che addiviene a costo più conveniente di apro rubinetto a foraggio di multinazionale. Mi liquefaccio di musica scorrevole e fluida.

Pure è avveduto governo di migliorissimi, che proclama, a dopo proclamazione d’eroe ignoto e multiplo insegnante, medico ed infermiere, per gratitudine a soccorso di paese a pandemia, che a compenso fa taglio orizzontale di scuola e sanità, che così recita progetto d’ampia veduta per paese a sconfinfero d’unità nazionale, sotto stendardo di vette invalicabili di genio politico a statismo immenso. Che a raccatto risparmio faccio tesoretto buono e caritatevole per investo in bombarda di pace, che alleato a battuta pronta chiede a gran voce. Forse per giusto sarebbe che taglio pure pensione, che mando vecchio beone anch’egli a lavoro per zappo orto arido con piccone a mano, che così risparmio di carburo per trattore e faccio embargo a zar. Vado d’eroica musica.

Mi chiudo ma non mi taccio che è a saluto d’autentico affetto a liquefazione su sedia d’esaminatore che domanda trabocchetto feci ad abolizione, ché neurone funziona più come trappola a me che a ragazzo che non sa cosa gli aspetta. Fosse saggio per destino di mondo a mano sua, prospetterebbe prossimo venturo distacco di spina a globo terracqueo, che accanimento terapeutico a tengo in vita moribondo mi parve cosa assai poco a pietas disvelata. Vi faccio flebo di musica.

Chiare, fresche e dolci acque

“Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo”. (John Stuart Mill) Non mi privo – e vi privo – di musica d’accompagno a lettura, che quella sempre m’è gradita che d’altrettanto spero fa a voi.

Che mentre mondo s’attrezza a bombarda collettiva, che ovunque c’è puzzo di zolfo e polvere da sparo, stragettina in qui ed in là, io, a ozioso vizio, mi concessi giorno di pausa a mezza mattinata, che invero mi toccava fino a punto non certo, ma m’obbligai a sosta forzata che batteria appariva di tragico usurata ed esausta. Insomma, che di pausa d’ozio feci virtù che stravolsi paradigma corrente, me ne andai a rinfrescar meningi ed affini a riva di fiume, che mare m’apparve di difficoltà a raggiungerlo a tempo breve di previsto. Feci, ordunque, puntata a chiare, fresche, dolci acque, pure m’avventurai a calura di deserto tra bosco ubertoso lungo riva sinuosa di corso che fu per risciacquo di panni.

Ma m’avvidi ancora che grande fiume fu a riduzione di sputacchio appena, che a sciacquar panni lì si finisce che si parla lingua sconosciuta, grammelot di verbi e sostantivi che, pur aggettivati d’opportuno, paiono lingua satanica, che a zozzume di stagno parve ridotta qualità di scorrimento. M’avventurai financo a torrente immissario, dove, a più riprese ed a medesima stagione, per fuggir da prima canicola, svelai marmitta di giganti per tuffo doppio carpiato, che ora pare pentolino di gnomo, con trota che respira a bombola d’ossigeno ed a me m’è appena sufficiente per miserabile pediluvio in liquido che pare brodaglia di cece. Fu fortuna che la seccagna svelò sassi in quantità di molto più che di solito, ch’io con essi sempre intrapresi conversazione a dialettica serratissima.

Però, anch’essi convennero che c’è caldo assassino come non è dato a stagione che nemmanco è ad ufficialità d’estate. Ed alla fine ci fu concordia che preoccupazione per bombarda d’altrove pare specchietto per allodola che bombarda è a testa d’ogni creatura che calpesta la terra, ovunque essa viva è a sete d’esagero. Che pure masso placido a riva un tempo vicina, ottima seduta, fu d’accordo ed espresse condivisione senza infingimento. Pure, pensai, che qualcuno gioca a briscola pazza, che solleva polvere per questo e tal altro fatto, che di cosa d’importantissima esigenza a risoluzione a ne parlo poco è già troppo, meglio niente. Che questione di guerra di zar, di strage di qui e di qua mi pare ad edificio d’abuso senza piano regolatore, che cambia skyline di pensiero collettivo che collettivo non è ad attrezzo di casco giusto a misura che cielo casca in testa.

Pascoli abusivi

Qualche volta dispongo la prua verso l’interno, non per distacco verso il mare, piuttosto per desideri di riscoperta. L’altopiano è luogo dell’anima, con i suoi silenzi e i maestosi carrubi che paiono vigilare sul viandante, cheti, ombrosi, antichi. Immensi monoliti di roccia bianca solcati da rughe, talune talmente profonde che le chiamano cave, percorse sul fondo da torrenti che talora ancora sopravvivono, e s’aprono strade turchesi riparate dal sole, tra il verde smeraldo d’ogni essenza. Sono fiumi che hanno nomi da divinità antiche, forse sono davvero quelle divinità, tramutate in lacrime per il fallimento d’ogni loro progetto planetario, soverchiato dal dio più feroce che s’alberga tra noi. M’intrattengo spesso sulle rive di quelle lacrime, che i profumi s’inseguono ai colori, ed i sensi si confondono gli uni con gli altri, in una sorta di stupefacente percezione psichedelica. Quando il tramonto rende il rosso alle pietre, ed i sassi cominciano a far sentire la loro intonazione, la predica definitiva d’una storia che ha dimenticato il tempo, m’intrattengo ad ascoltarli che c’è da imparare da quel racconto. Lunga narrazione, del tempo quando non c’era il tempo, terra di Lestrigoni e d’ombre, di ninfe e semidei. Cacciatori cortesi d’avventure, si scavano nascondigli per pudore d’esser sgamati nella loro più intima essenza. Il silenzio è capace di rimbalzare ogni dettaglio di quella storia senza levare un sopracciglio, solo che s’abbia voglia di percepirne il bisbiglio di vertigine.

Ed il pascolo è d’oro e le mucche, che non amano assembramenti, a distanze di sicurezza l’un dall’altra, s’accostano all’erba sopravvissuta all’afa del giorno. Lassù pare che si trovino a loro agio sopra ogni cosa, pur se m’avvedo di qualcosa che non funziona, che quel pascolo, che sa d’Arcadia, lì non c’entra. Dall’alto mi spingo con lo sguardo oltre il punto di vista della mucca, che ancora mi pare avere dignità, che non intendo sottovalutare. Sinché non m’avvedo delle ragioni dello stridio, che quello spettacolo, in altro contesto, m’avrebbe illuminato d’immenso ed ora m’inquieta. Che quel pascolo lì non doveva esserci, poiché, sino a qualche settimana fa, lì, c’era il lago che porta il nome della Santa. Pure lei – mi sa – non deve avere lavorato granché bene. Accetto, si l’accetto, il punto di vista felice della mucca e delle sue consorelle, ma tinche e trote? Evaporate anch’esse.

Qualcosa che non va c’è. Che poi se la cerco la trovo pure, che d’acqua da certe parti si muore, d’altre, per sua assenza, si crepa.