Il posto giusto (Allonsanfàn parte sesta: Casa Museo “Antonio Ligabue”)

L’arte, io non lo so se sia eterna o provvisoria, se la forma d’arte nella quale viviamo per molti secoli ci si sia connaturata come sangue, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita”. (Cesare Zavattini)

Che tutto fuori furibonda, pure il ciclone non pare meno cauto del solito, e s’addesertano le verdi foreste, s’allaga il deserto e si fa lago, s’imbronciano i banchieri, scavallati a destra – che a manca s’è persa la retta via -, sepolti d’angustia e a rischio dePILazione, colpa torme sbavanti di ferocia inaudita, ch’è a rischio l’olivetta in ammollo nella melassa di color catarifrangente e le faccelibro traboccano d’astinenze umane. Così m’appare il mondo, che ogni angolino di suadente lentezza, mista di bellezza, si fa specie in via d’estinzione programmata. Eppure, taluni anfratti ancora ne scorgo, che uno me lo sono visitato di recente, come toccasana per gengie stanche d’arrotamenti, dove, quando posso, scappo e vado. In mezzo alla Bassa, a due passi dal fiume che, salvo improvvido scroscio marziano – che quelli ormai se li beccano le vie vulcaniche meno avvezze, nel mondo che s’arrivede al contrario -, pare placido assai più dell’altro corso del 24 Maggio.

Defilato, solo vagamente, in quel di Gualtieri, in terra di Zavattini, c’è la Casa Museo di Antonio Ligabue (e qui c’è tutto quello che dovete sapere: http://www.museoligabue.it/), posto dove approdi con l’intenzione della scoperta lenta. Lì, Giuseppe e Gilda, magnifici amici, di quelli che li devi mettere in agenda al primo posto, t’accompagnano in viaggio senza tempo, dentro pennellate ed unghiate del pittore più sano tra i pazzi, che lì dormì appollaiato in quel che fu fienile ed ora è luogo di ristoro d’anime contemplative.

E c’incontri storie, ogni volta un’altra diversa, sempre che t’affascina, sia di un vecchio sindaco che decretò ospitalità strutturata all’artista, sia del figlio dell’autista del maestro, sorprendente Roberto, che ne conobbe i dettagli al desco, e te li racconta con dovizia di particolare, con un sorriso talmente rasserenante che non te ne vai più. Ci sta che te ne staresti lì un paio di migliaia di anni che, com’è destino delle magie di certi posti, prima o poi qualcuno passa che ti delizia del racconto, che t’aggiunge una curiosità o te ne risolve una che manco t’era venuta in testa. E pare un film quel gazebo, con le biciclette ferme che non attendono pedalata, ma che invogliano al bicchier di vino – che io, terrone di mare, gradirei più fermo delle fucilate a bolle del Lambrusco, ma me ne faccio ragione. È ospitalità antica, di quelle che non chiedono altro che il racconto, che invogliano alla domanda, alla risposta rendono pronti e mai esausti.

Giuseppe Caleffi, Virgilio e al contempo Cicerone dello spazio, non ti fa mancare che la storia continui, che di dettagli dentro un quadro ce n’è quanti ne vuoi, se è lavoro sofferto. Pure solo se è una punta secca d’un maestro di follie e trovate, t’apre d’affabulazioni un mondo ch’è fatto di bellezza soffusa, di colori sgargianti, e nebbie d’ovatta. Ogni oggetto, che in casa deporresti nel bugigattolo, lì pare che ti racconti di vicende d’umanità profonda, si fa catalizzatore d’attenzione emozionata, t’attira nel vortice del tempo, ti lascia fuori gli orpelli dell’inutilità del resto d’intorno e ti riaffratella con la vita.

Poi, che ti resta, se t’avanza tempo, se non d’andarti a mangiare tortelli di zucca (un po’ più alla mantovana, da quelle parti, mi par di capire, che all’emiliana), dopo l’estasi della passeggiata fricchettonante in riva al Po, speranzoso – e lo dico per me – che il vino non faccia troppe bollicine, che la gastrite, quel giorno d’estasi, l’ho lasciata a casa per sommo sollucchero.