È questione d’etichetta

«Per quanto gli uomini riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fiumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era la primavera anche in città, il sole scaldava, l’erba, riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra , e betulle, pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole.
Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini.
Ma gli uomini, i grandi, gli adulti, non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all’amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi gli uni sugli altri.» (Incipit di “Resurrezione”, di Lev Tolstoj)

Piccola pausa stamattina, giro al supermarket, proprio all’apertura ché non ho voglia di almeno due cose. La prima, non ho voglia di fermarmi a chiacchierare, non ho voglia di «ma da quanto tempo». La seconda, la fila alla cassa, certamente perché stressante ad un livello che potrebbe superare quello di guardia, ma anche perché starsene fermi lì ti espone inevitabilmente ad un rischio altissimo che si realizzi la prima, pure con ridotta possibilità di fuga. Comunque avevo qualcosa da prendere, beni di conforto, dire di prima necessità. Non posso affollare il frigorifero, il ritorno a casa è imminentissimo. Lìaggiù al supermercato non vado. Ho il tempo che mi serve per far spesa come voglio, dal selvaggio contadino, dal feroce massaro, dal terribile pescatore, pure dalla Signora Ada che fa capperi e biscotti. Vagando per gli scaffali però mi sono saltate agli occhi alcune cose, poi alla testa certe suggestioni.

Ve le racconto nell’ordine con cui mi tornano in testa. ILa conserva di pomodoro, c’è scritto sull’etichetta che è fatto con cose italianissime. Bene, non ho motivo di dubitarne, diciamo che mi fido. Leggo con attenzione quello che c’è dentro, dopo aver inforcato occhiali giusti che per puro caso m’ero portato dietro. Tralasciando il fatto che c’è una certa quantità di cose che in una passata di pomodoro non vorrei ci fossero, mi compiaccio della buona fede dell’etichettatore, ligio alla legge che chiede specifiche perfette in tal senso. C’è pure scritto dove lo fanno, è cosa di paese nostro, non c’è dubbio. In geografia me la cavavo e posto che sia vero, il tricolore tira, tranne che non ti metti a sventolarlo istituzionalmente, nel qual caso pare sia lesa maestà. Ma è il prezzo che mi sconvolge, basso, bassissimo, quasi faccio scorte. Mi fermo un attimo e rifletto che di talune cose sono avveduto. Per fare un litro di passata servono almeno due chili di pomodoro, dove lo fai lo fai, e tranne che non ci sia acqua ad allungarlo – che da quelle parti dove l’hanno fatto è più rara dell’ambrosia – quelli servono.

Ponendo che quelli costano un tot che a testa mia c’è, che pure io compro dal produttore contadino in solitaria a prezzo convenientissimo, e mettendo pure che di certo quelli a trattar con grandi quote fanno ad aver sconto da favola, mi pare già ci si avvicina a soglia di costo a bancone. Ma poi c’è il packaging, e pure quello costa. Poi mettici il trasporto, la conservazione, il costo di tenerlo lì bell’esposto e lindo, con illuminazione a bolletta salata, air conditioned, a favor di acchiappo d’occasione. Si sfora, è indubbio. Da qualche parte bisogna tirare il prezzo che anche ammettendo sia prodotto civetta fuori mercato mica si può pensare ci si perda a fallimento. E l’idea di dove si tira giù il costo me la sono fatta. Il braccio da raccolto è a sfrutto pesante, a paga che val molto meno del nulla per far felice allegro consumatore che giubila di annego facile, urlando a «casa loro», pure «chissenefrega» se chi lo raccolse perse prima proprio detto braccio quale arnese da raccolta poi tutto il resto. Ma vado oltre, con qualche raccapriccio per colorazione rossa della passata. Ho ancora il carrellino vuoto. Ad altro reparto m’avvedo di cosa civilissima che c’è scritto non testato su animali. E davvero mi pare cosa civilissima, ma pure detta scritta mi fece mal di testa. Ma come, ci scrivi non testato su animali e non ci puoi scrivere su un’etichetta – oltre al contenuto microgrammatico d’ogni virgola – che lo fece gente che non fu sfruttata a morte, con paga da fame e senza diritto manco a cura d’esser cittadino rispettabile? Cara vecchia, piccola borghesia d’imprenditore illuminato, che produci bene di primissima necessità, perché non cominci tu che ci scrivi sulla confezione d’ogni cosa «prodotto ad ogni momento della filiera – che ci ho qui la fotocopia della certificazione che mi feci fare da ottimo ispettore – senza sfruttare braccia a schiavitù conclamata, reclutate da vigliacco caporale tra chi si fece fuga obbligata da fame e miseria con ricatto che ti caccio via che ci ho santi in paradiso»? Ecco, che se glielo scrive uno poi chi non glielo scrive significa che dice esatto contrario. E la bell’Europa, la bell’Itaglia armate sponde, perché non fanno una bella legge che dice che è obbligo di chi vende a rendersi conto che filiera sia senza schiavo? Un po’ di delicatezza che si fece a cosa giusta per animaletto pure per essere umano non guasterebbe. Ma mi piacerebbe anche che ci fosse uno che facesse proposta, banal proposta a farsi dire «sei contro il progresso civile e contro liberissimo mercato. Vuoi far salire l’inflazione a colpi di risparmio dolore e sofferenza di razza aliena?» Che almeno confessano d’esser quel che sono. Comunque, a casa ci tornai a carrello vuoto, che ormai mi faccio schifo pure io.