Sognicchiando

Si concluse a fatto compiuto che non s’evita bomba deflagrante ed estrema il simposio dotto dei più. “Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che incomincia a farlo da rappresentanti accreditati dei leali cittadini che la combatteranno.” (Ernest Hemingway)

Abbiamo tutti dei sogni, ne ho taluni anch’io. Spesso è roba da poco però, non sono avvezzo a cose troppo spumeggianti. Al massimo mi rivolgo a cose consuete, già provate, nemmeno sono in grado di distinguere un sogno quale meta, a conto fatto, irraggiungibile – un’utopia, per esser chiari, come talune che mi accompagnarono ad anni diversi – ed una più prosaica e permanente nostalgia d’atti manchevoli. Certo non mi faccio mancare voli vertiginosi verso cose elevatissime, storie di società folgoranti d’equa condivisione, frattelanze consolidate. Insomma, spazio, mi faccio ondivago e mi pare, a primo acchito, ci sia distanza siderale tra gli uni e gli altri. Di solito m’attrezzerei volentieri e semplicemente su uno scoglio, per indagare l’infinito, svelandone i sottili dettagli, ad abrogazione di rumori che non siano di risacca, d’onda che si frange, senza spavento di tempesta. Proverei a distinguere la curvatura della mappa, me la farei svelare da una vela che fa capolino da quelle parti, laggiù in fondo, dove acqua e cielo si fanno passaggi di consegne, lasciando lo scafo a vista d’altri, proprio per quella incapacità dell’occhio di andare oltre abbastanza e dell’immaginazione di concedersene invece il lusso.

Mi farei sorreggere dal solo desiderio di starmene lì, a non far nulla, col cadavere del tempo, senza nulla a pretendere che già quello parrebbe sogno realizzato, la casa senza porte, la fabbrica deserta. Nell’attesa, mai a spasmo, di veder sbuffare la bagnarola di Pilu Rais, screziare di bianco il blu col suo carico di lenze d’Araba Fenice, per la prospettiva d’un brodetto. Mi basterebbe quello, il pensiero divertito della prima che mi amò, la ricerca nella divertita memoria d’altri fatti, persino misfatti. Si, certo, provvisto d’utili accessori a corollario, un fiasco d’adeguata capienza, il tabacco, la consapevolezza che a casa troverò d’ascoltare dischi giusti, un libro aperto a pagina centosessantacinque, avrò il mio pane e pomodoro, con l’origano che mi faccio dare dalla contadina del mercato laggiù, non a distanza di vertigine dallo scoglio stesso ché il distacco non sia sofferto. Ecco, questo mi pare sogno, che taluno potrebbe obiettare che è cosa di assai poco conto, che disvela ambizioni limitate, un certo disilluso sguardo distolto dal mondo in fiamme. E forse pure questo è vero. Ma poi ci ragiono e mi viene da pensare che se questo fosse sogno condiviso ad unanimità umana, con ammissibili variazioni sul tema, quanto avverrebbe che ci fosse orda barbara che anela ad esser ultima a far esplosione per sgancio su sogni d’altri di bomba su bomba?