Un nome si fa storia

Faccio come certi che hanno vissuto naje e mi conto i giorni che mi separano da mare e barche. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

Quando arrivano all’alba, coi motori che appena sbuffano, quasi non le senti. La barche, quelle piccole, di piccolo cabotaggio, sono discrete, non fanno rumore e pure l’equipaggio, a quell’ora del giorno, pare assecondarne la discrezione. Si muove piano, per non infierire sulla stanchezza della notte, tutti come recitassero a soggetto, con l’unico linguaggio del corpo, senza parlare. Le barche hanno sempre un nome. Quello di una madre, una sorella, un’amata o un santo padre. Tutte hanno una storia, dal momento in cui sono armate, a quando s’affollano d’equipaggi, foss’anche un equipaggio d’un cristiano solo. Scivolano d’attese, s’apprestano ai moli ed alle bitte con le cime tese, come volessero conquistarsi il riposo meritato, aggrappandosi alla certezza d’un porto sicuro dopo l’irrequietezza della notte, con le reti che vibravano d’argenti e d’ultimi respiri affannosi.

Le barche hanno un nome, tutte, pure che non superano la grandezza di una vasca da bagno. Ed anzi, più piccole sono, più pare che vogliano raccontarti la storia di quel nome, che di quelle grandi e sbuffanti di potenze si sa già tutto. Talvolta giacciono in rada, col capo chino, leggermente piegate su un fianco, spinte lì sinché hanno avuto la forza d’arrivarci, per poi rimanerci sdraiate ed esauste. Altre volte s’accomodano sul fondo, e aspettano che qualcuno, per passione di scoperta, o solo per curiosa insistenza, ne racconti la presenza. Quando fotografi le barche, quelle che nessuno nota, un po’ scrostate, tra prua e poppa, senza alberi levati al cielo, motori che ruggiscono, sirene che squarciano silenzi per chilometri, quelle che qualche volta hanno il solo motore d’un remo torto, racconti la storia dell’uomo, la storia d’Ulisse, d’un Argonauta di fortuna, d’un pastore nomade che fugge dal deserto nel grande blu, d’un mercante fenicio, d’un pescatore d’anime guizzanti. Le barche, quelle piccole e malmesse, sono un libro con tante pagine, pochi versi intensi su ogni facciata, un quadro incorniciato di blu e del colore della rena, che si ravviva di cromatismi quando arriva il crepuscolo, piove o un’aurora si fa strada fra le nuvole a tempesta. Sono quadri d’un pittore che s’è scordato di firmarli, di mettere in calce una data, un frammento di riconoscibilità, che pure le ha provate tutte prima di metterli in mostra. Poi s’è arreso, senza rendersi conto d’aver firmato un capolavoro col nome d’un altro. E quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)