Ancora un pensiero per le statue di sale

«Erano gente spregevole, quelli di Sodoma e Gomorra, come tutti sanno. Il mondo stette meglio senza di loro.
E alla moglie di Lot, naturalmente, fu detto di non voltarsi indietro a guardare il luogo dove prima c’era quella gente con le sue case. Lei invece guardò, e per questo io la amo: perché fu un atto tanto umano.
E così fu trasformata in un pilastro di sale. Così va la vita.
Non è previsto che la gente si guardi indietro. Io non lo farò certo più.
» (Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, Kurt Vonnegut)

Non pare ci sia propensione nel trasformarsi in una statua di sale, per cui val la pena non voltarsi indietro. Il progresso non può non essere roseo a soddisfacenza immane.

Quello viene sempre bene, pure se ha i piedi ben conficcati in un passato con cui non si fanno mai conti a determinata rimozione. A me, dissero e poi ridissero, che vivo lì, in qualche passato. Sono così conficcato in quella roba che taluno specificò che nacqui che parevo già il nonno di mio nonno. Ma è fatto d’equivoco assai bislacco a far certa affermazione, ch’io, in quanto nessuno, non sono certo nemmeno di avere un passato che conta verso cui voltarmi. Pure ne ho ricordo, in un certo qual senso, di quel passato che non conta, e non mi faccio illusione di un suo ritorno, che se tornasse quello sarebbe prossimo e venturo come lo yogurt scaduto. E c’è da figurarsi che non ne sarei contento affatto che acciacchi non me ne volgono al meglio al tornare indietro, ma mi piace pensare di voltarmi senza essere a paralisi di roccia marina, piuttosto a sollevare il sale solo con aspirazioni soavi dove altri inalano per felicità altre polveri sottili. Cioè, in quel presunto passato io non vidi sordidi intenti che m’appartennero, e cialtroneggiavo di certo senza far etti di danno, solo, al limite, con qualche sprazzo d’energia in più, che mi portava magari in riva al mare senza tema che umidità non facesse ruggine per scricchiolio d’ossa, e la dama del vino non faceva staffetta col bicarbonato, non più di tanto, almeno. Uno scoglio l’avevo ad ora esatta che poi era ora d’un sempre che mi pareva, a compagnia d’una che in quell’istante mi amò e che in detto momento fu ricambiata, ma non fui messia nemmeno un poco pure nell’alternanza sacrificale degli spazi aperti coi bui sottoscala del girare di manovelle per scritto di rivoluzione e raccolta di schizzi di piombo tetraetile. Certo, a farmi schiena piegata a scarico di pesce a cassetta e tanica di nafta per alimentazione di borbottio di carretta in vocazione di affondo per spinta di vento di tribordo – non me ne voglia quel me stesso ridente per sguardo lì – non anelerei a ritorno, ma a conservarne memoria sacra si, insieme a ciò che mi fece d’aggrado, a ciò cui non rinunciai che si chiamò libertà. Nemmeno ridussi ad ombra fuggente ciò che vidi di delittuoso, o che altri raccontarono di passato loro a non dispersione d’occhio attento a direzione opposta di futuro. Di tutto feci archivio di memoria interiore. Che poi, a dirla con Nabokov, a guardarlo, il futuro, invece, quello mi parve per orrendo suo concepimento, solo un obsoleto al contrario, che ti toglie delizie di ricordi e ti riporta alle fiamme d’una apocalittica ignavia.