Minoranze

Non è che uno sceglie di essere minoranza, semmai anela il contrario. Ci credo poco – ma ne ammetto pure l’esistenza – che c’è un taluno che sceglie di essere sempre e comunque minoranza. È cosa degli uomini affratellarsi con milioni di altre creature, pure lontane e diverse. Ma l’evidenza dell’essere minoranza mi sopraffà sinché sono stato investito dall’età della ragione, cosa peraltro non richiesta. Che poi essere nell’età della ragione non per questo impone d’avere “ragione”. Si può dissimulare il proprio torto, nel profilo basso del parziale fraintendimento, nella diplomatica accettazione del volere altrui, nel mugugno a bassi decibel. Ma sempre dentro la riserva indiana, poi, ci si ritrova, senza se e senza ma, spesso con un solito irrisolto perché.

C’è che uno non se lo sceglie da che parte stare, mi sono persuaso che gli tocca. Si può cambiare il corso degli eventi, ammettere che esiste il libero arbitrio, comunque ci si porta dietro la propria ineluttabile condizione esistenziale. Almeno penso, che non ne sono manco così sicuro, pasciuto nel dubbio, forse nel sonno della stessa ragione. Così, predestinato, per origini e censo, a rapinare le vecchiette davanti alla posta, mai m’avvidi di come ciò possa non essere successo, spiattellato a fare un profino qualsiasi, financo a godermi certe smanie piccolo borghesi, talora pure a montare librerie Ikea. Però ho passato tutta la vita nel desiderio d’omologazione maggioritaria, d’adesione agli immaginari collettivi, che sono convinto che ti toglie pensieri, il contrario t’arrovella. E ciò m’è accaduto in ogni frangente che vissi, cosa di cui non vi terrò edotti né nel dettaglio, nemmeno nelle sue linee generali, poiché è cosa di poco conto.

Il punto è che, seppure t’asciuga i criticismi, dunque ti solleva di certi gravami d’insonnia, l’essere maggioranza non è a costo zero, richiede tributi che taluni pagano con nonchalance, per altri è compito delicato, che impone fatiche e ti induce a scegliere di quali fatiche puoi fare a meno, quali altre sei in grado di sopportare. A me, lo dico francamente, dell’essere maggioranza mi preoccupa l’essere rapido e preciso. Eppure ci avevo sperato, come montagna inamovibile, in attesa del profeta, che la triste reclusione dei distanziamenti sociali, potesse stravolgere il senso delle cose, stralciare paradigmi, ridurre davvero le distanze. Invece!

È dai tempi della scuola, da quando la frequentavo dall’altra parte della barricata, intendo, che mi sento ripetere, se non esplicitamente almeno nelle indicazioni generali, che occorre essere rapidi, puntuali, efficienti, efficaci, in definitiva, meritevoli. Poi l’università, il lavoro, la musica non cambia, inno imperituro, richiamo costante alla mitica perfezione dell’agire, del produrre. Bisogna apparire decisi, vincenti, volitivi, esprimersi in modo sintetico ed esaustivo, non indugiare, accelerare, non tergiversare, perfezionarsi sino all’eccellenza, dimostrare volontà ferree, strategie definitive, risultare impeccabili, al di sopra d’ogni sospetto di lassismo, rinnegare il dubbio, compiacersi delle proprie granitiche certezze. Eleganti, ma senza pacchianerie – questo, invero, anche alla maggioranza, non è che proprio… -, in forma scultorea, frequentare i luoghi giusti, le giuste compagnie. Rapidi, dunque fast food, apericene, sushi, musiche con ritmi definiti, bum bum senza sorprese, rime baciate, brevi, che si ricordino, niente dissonanze e asimmetrie; il jazz è morto, l’improvvisazione sepolta. E io, se mi guardo intorno, se mi affaccio dai miei anni con lo sguardo indietro, la storia che vedo è un’altra.

Quanti progetti, quante cose iniziate e lasciate lì, in attesa di chissà cosa. Quante incompiute, quante risoluzioni fallite, quante approssimazioni. Non ho mai avuto una visione circolare del tempo come gli orientali, mi sono crogiolato di memorie, facendo in modo che il futuro si muovesse con “lentezza” sino a toccarsi col presente, ed insieme si mettano ad aspettare il passato per un tamponamento a catena che li faccia coincidere in un unico punto temporale indefinito ed infinito. Poi, col tempo, continuerò ad esplorare lo “spazio breve che suggerisce l’infinito” (Jean Grenier), e sceglierò in un viaggio sghangherato la mia “Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa” (Albert Camus). Perché quante approssimazioni, per fortuna, possono restituirci almeno uno scorcio di quella bellezza infinita che è nella nostra irredimibile natura umana di creature lente, di strateghi della lentezza, in competizione con le più ostinate lumache nel contemplare i dettagli più insignificanti di questa terra, per cogliervi dentro la suadente poesia. Di converso, quante brucianti accelerazioni, pragmatismi risolutivi, decisionismi improcrastinabili, precisioni burocratiche, successi epocali, ci hanno lasciato l’eredità d’un condono edilizio…!

Sit down, please

Insomma, c'è quell'altro me che mi trascina in mille rivoli d'impegno. Che io glielo dico sempre che non è cosa per me e, sotto sotto, so pure – e anche lui lo sa, anche se non l'ammetterebbe nemmeno se lo lasciassi a pane e acqua (e passi per il pane, ma l'acqua e basta...) – che non è cosa manco per lui. Però c'è il lavoro, il sindacato, quelle due o tre cosarelle – come dice lui, ma risultano a me più di tre o quattro – che ci tengono sotto pressione. Per cui il blog non è che me lo coltivo come vorrei, che è cosa che, invero, mi piacerebbe fare. E sempre si corre a destra e manca, che, al massimo, posto quando mi capita, quando posso, sempre assai meno di quanto m'aggraderebbe. E ciò attiene alle ragioni per cui queste pagine esistono da un anno e mezzo circa. Qua e ora, pure se non richiesto, di questo tempo mi farei un bilancio piccolo piccolo, niente di serio, che coi bilanci non ho pratica. Insomma, io che coi social e la rete ho la stessa dimestichezza d'un alcolista con le dame di San Vincenzo, ad un certo punto mi faccio casa virtuale. Ci pensai che c'era il lockdown, ma quello è fatto accidentale, che l'esigenza era altra. Mi dovevo riprendere una rivincita sullo scrivere, che ce l'avevo con lui. Perché fra me e lo scrivere s'era stabilito un malinteso grosso come un palazzo. 
M'ero fatto persuaso che valesse la pena di scrivere se potevo farlo alla grande, se con quello non facevo prigionieri. In seconda battuta, potevo farlo per camparci, nel qual caso potevo anche indugiare in minchiate, e questo è quello che avevo fatto per anni, scrivere minchiate, intendo - che se ne andavano a ruba –, mentre, se qualcosa “alla grande” avrò scritto, non se ne sono accorti che in tre o quattro, pure scimuniti peggio di me, autentici nessuno senza arte nemmeno parte. Così non m'avvidi che di una sola soluzione: smettere, dimenticarmene. Stessa cosa feci con la fotografia, mi vendetti persino la cinghia della macchina fotografica, financo accettai la prima offerta, talmente pessima che non mi misi nemmeno a trattare, che era sopraggiunto l'estasi del sommo disgusto. Peggio ancora feci, fuggii addirittura dai luoghi dello scrivere, mi feci romita lontano dallo scoglio che mi diede natali. Alla soglia di Nettuno, sostituii le visuali di stimmate di Santo. E ad ogni tentativo di riprendere penna in mano, cascavo nello sconforto del “che senso ha?”, che non mi legge nessuno. Poi, fu fortuna – che non so spiegare - sopraggiunse il giorno del “chi se ne importa”, come fece Rosa, dunque, non del “chi se ne frega”, che ad altri confà di più. E qual solluchero nello scoprirmi di nuovo a scrivere, senza manco pensarci se bene o male, al come mi viene viene, al quello che esce esce, di getto, di brutto, d'istinto, solo per me, al più per i miei sassi. Che meraviglia riscoprirsi nessuno a scrivere, nessuno a leggere. Appagare questo nessuno per il semplice gusto di farlo, come si tracanna dalla coppa degli dei. Scoprire che non ci sono controindicazioni, nemmeno effetti collaterali. Scoprire che, se ti rilassi, e fai che t'aggrada davvero, senza pretendere altro se non quello in sé, è misterioso il risultato. Già, e sorprendente e misterioso premio che mi veniva dal rileggermi i commenti degli ultimi post, tanti assai che manco m'immaginavo (grazie di cuore, dunque, a chi ogni tanto passa da qui). Botte e risposte, divertite, garbate, che là fuori c'è un tasso di violenza che non capisco, di veemenza crudele, di sconforto collettivo – preciso che nemmeno io sono un ottimista d'acchito -. Che è tutto urlato, che pare di sentirle le urla che t'assordano pure in certo scritto, sbavante di rabbiose certezze, faziosità definitive, condanne sommarie. E qui invece mi pareva che c'eravamo messi fuori la sedia nei cortili lontani della mia isola, per cogliere la brezza che viene dal mare e stempera la calura dello scirocco. Che profumo di chiacchiere col fiasco sul gradino. Mi ricorda pure quando, nemmeno troppo tempo fa – un paio d'anni o tre al massimo – trovato lo slarghetto sui gradini d'un sagrato, con la banda dei soliti, valutando il deserto d'intorno nella notte, lontani dalle consuetudini, tirammo fuori la chitarra per strimpellare antiche delizie di commozione. Per prima s'affaccio' l'anziana signora, e si sedette ad ascoltare, “suonate, suonate, ragazzi” (sentirci appellati ragazzi ci fece un qualche effetto). Poi la ragazza venne a passo svelto verso di noi, sbucata dal palazzo che immaginavamo disabitato, come il tutto d'intorno dirupato. “Ne avete ancora?”. Che la vecchia amica rispose con garbo di mortifica che saremmo andati via subito, che non volevamo disturbare. Quella, invece, chiese un attimo e sparì dentro il portone scorticato, per riapparire con tanti bicchieri quanti ne bastavano e più bottiglie degli stessi, “Che anch'io voglio cantare”, disse, senza pubblico pagante

Per grazia ricevuta

Niente, che ci ho limiti oggettivi, pure se mi lambicco e m’arrovello. Lo faccio a vuoto, con tanto d’effetto inerziale che non mi ferma. Ci sono cose che non capisco e che dovrebbero indurmi a lasciare perdere vani e temerari tentativi d’interpretazione. È questa cosa dell’essere qualcuno per forza, essere per essere, anche se a me pare essere per essere servendo, che non mi funziona. Ma quello che pare a me è irrilevante, che io sono uno che parla coi sassi, nessuno confortato dalla sua nullitudine. Invece, c’è un pezzo del mondo che è in quanto tale solo se è in massa ammassato, se si confonde e diviene moltitudine. Pensavo, c’è stato pure quel tempo, che la necessità d’essere dipendesse dall’essere altro, dal ritagliarsi un proprio costrutto vitale, distinguersi. Ed evidentemente mi sbagliavo, che così mi tocca essere nessuno se voglio non essere ammassato. Per non essere ammassato, dunque, qualcuno, bisogna diventare niente, invisibile. E se sei qualcuno dunque non sei nessuno e via discorrendo. E non è cosa che attiene a principi igienici e basta, che ti becchi il covid se te ne stai alito con alito con pletore d’alitanti, nemmeno un principio fobico di abbrutimento sociale – per questo, invero, talora qualche sintomo m’è parso di coglierlo, ma niente di grave -, piuttosto, ho derubricato la cosa a nota caratteriale, manco ci ho pagato una cinquemila lire con puntate ad un compro oro a strozzo per pagare pletore di psicoscavatori.

Però, passa il tempo, a questa condizione mi ci sono abituato, che mi pare pure che mi faccia bene. Del resto che colpa ne ho io se la mattina mi lasciano la spiaggia tutta per me e se ne stanno tutti appiccicati in un fazzoletto di rena che ci ha la densità della Striscia di Gaza. Ci fu un tempo che il mio ego strabordante mi portò persino a pensare che lo facessero per me, per non disturbare le mie nuotate, la lettura del solito quotidiano dove via via mi pare ci sia scritto sempre meno. Poi m’avvidi che io non c’entravo, che era cosa che mi prescindeva. Così – neppure dolorosamente – piano piano mi sono assuefatto all’essere nessuno, con la enne minuscola soprattutto, che qualifica il mio sostanziale e furibondo essere vertiginosamente niente. Io scrivo su questo blog, pure con un certo godimento, mi permetto qui e pubblicamente il luttuoso lusso di non essere nessuno. Mentre le moltitudini di identità statutariamente definite s’attenzonano su qualche social – che ora ce n’è talmente tanti che manco so quali sono – immaginando d’essere protagonisti dei propri magici destini. S’affrontano e si diffidano, sistemici e – presunti – antisistemici, signori della coerenza e complottisti, amanti del dubbio e di certezze che si spezzano ma non si piegano.

Tutti sospesi al giudizio definitivo del solo dio che conoscono, che poi si declina con quel pronomino “io” sol perché d’accidenti la “d” precedente s’è persa nell’urto con la folla claudicante. Ma ho idea che m’è venuta d’acchito, che tutti questi dei non s’avvedono, urlando il proprio divino nome, d’altri dei, più cattivi di quelli d’Olimpo, financo più capricciosi, che sollucherano di tanti sacrifici umani. E che ci posso fare io che “d” a precedermi non ne ho alcuna, se in quella moltitudine di identità, non ce ne scorgo nessuna, che dalle mie parti per questo si dice che “niuru ccu niuru nun tinci”. Sarà l’astigmatismo, che m’affligge da che sono bimbo, o sarà che bimbo sono rimasto e, analfabeta come poppante m’aggrappo al nulla estremo di questa identità d’inesistenza infantile, da cui però mi godo la spiaggia tutta per me, per somma grazia ricevuta.

La lentezza e la ri-scoperta del silenzio

Avendo raggiunto le amate sponde, laggiù, dopo ovvio, lungo e periglioso viaggio, che tale divenne non appena m’accettai – con scarse alternative invero – d’affrontare l’ultimo tratto in modo assai convenzionale, ossia percorrendo strade appellate autostrade (più precisamente mulattiere ingorgate) di felicità riposta nell’arrivo, il benvenuto al sud si rivelò traumatico. Va da sé che non mi rammarico per il verbale che ho trovato nella buca delle lettere, chi sbaglia paga, ed io, sia pur non consapevolmente, sbagliai. Ma mi sorprese che l’operatore, sino ad allora infallibile, con cui tratto le mie telefonate, nonché la connessione alla rete – dunque pure quella al blog mio e d’altri che frequento – oppose lo gran rifiuto, pure per giorni. Per qualsiasi esigenza telefonica mi tocca rimettermi in macchina e spostarmi in altra zona della città. Non so quanto fui e sarò gradito ospite, presso caritatevoli amicizie, per la parte di smartworking che mi compete nei singhiozzi di campo. Mi sopraggiunge comunque quella strana nostalgia di tempi altri in cui la comunicazione o avveniva de visu o non avveniva. Talora si ricorreva alle cabine telefoniche, di cui non v’è più traccia alcuna. Tanto che m’ero quasi prefissato di sostituire, per nostalgie e disimpegno creativo, con una di quelle raccattata da qualche parte, la vasca da bagno. Al posto della cornetta lo spruzzo mi parrebbe cosa di estremo gusto. Viviamo, è vero, ma soprattutto finiamo per sopravvivere a ciò che ci accade, cercando di evitare inciampi o difficoltà di vario tipo: questa, del resto, è la preoccupazione maggiore. Ognuno di noi è chiamato la mattina ad alzarsi e a programmare una giornata alla quale assegniamo, noi stessi, difficoltà e prove, addirittura, a volte, creandocele. Esistono modi diversi di guardare le cose, di guardare gli angoli di una città, gli sguardi di una persona, i panorami che si susseguono o l’impegno che ci attende. Esiste un modo violento ed uno nonviolento. Il modo violento è quando vogliamo difenderci da una vita che immaginiamo esistere indipendentemente da noi. Il modo nonviolento è, invece, quando ci accorgiamo e capiamo che la vita non è ciò che ci accade, mentre siamo affaccendati a fare altro, ma che la vita siamo noi, lo è ogni persona, tanto che quando la vita stessa terminerà, quella persona, semplicemente, non ci sarà più.

È la ragione, credo che, fatte salve e rimosse le tragiche evenienze di cui siamo vittime inconsapevoli, per cui mi concedo con cenno notevole di svago, il lusso infinito di farmi il mio trekking nel disabitatissimo centro storico che s’arrampica sui ripidi costoni rocciosi, dirimpetto ai miei balconi ed alle spalle d’essi. Non ho desideri repressi d’urbanità caotica ed i silenzi di vicoli, cortiletti e stradine scivolose dell’usura delle basole, m’appartengono e m’attraggono. C’è nel tutto d’intorno, pur condito da brutale canicola, una sorta di fotografia del tempo, pure un desiderio di narrazioni. Ci sono storie che rimangono sepolte, come ricordi dimenticati e chiusi dentro ciascuno di noi; aspettano solo che, soffermandoci sulle loro tracce sbiadite, qualcuno le riporti alla luce. Questi viaggi lenti e di silenzi me ne offrono la chiave, in immagini cristallizzate e parole che si accompagnano – e mi accompagnano – in un viaggio che, più che un andare di tappe troppo spesso forzate, celebri attese e luoghi che sembrano far dimenticare il futuro. È un tempo senza spazio, senza movimento, non sta andando da nessuna parte ed è contro lo scorrere delle lancette dell’orologio. Sono i miei luoghi, posti che il tempo e gli uomini hanno dimenticato, che restituiscono le attese, l’esatto contrario del “tutto e subito”. Basta accettare l’idea che ogni dettaglio possiede un significato secondo, altro, nascosto, preferibilmente non subito evidente, che possiamo provare a tirar fuori con un procedimento che forse attiene ad una sorta di maieutica socratica. Neppure possiamo concederci una mera ricerca estetica e formale in quell’attraversamento fuori tempo, semmai possiamo provare a costruire una personalissima narrazione, immaginando la vita che fu lì, le ragioni d’una sorta d’estinzione di massa. Il dettaglio così diventa “la parte per il tutto” lasciandoci la possibilità di ri_vederlo, di ri_evocarlo e di ri_leggerlo in contesti del tutto soggettivi. Non rimane dunque che l’approccio lento alle suggestioni attraversate, con lunghe tappe d’attesa sui segni, sulle luci e sulle ombre, sui colori che, a dispetto di tutto, sembrano mantenersi vividi, quasi a presagire l’arrivo di un’altra vita, di altre storie. Ma non mi importa nulla d’una lentezza che vuole ritardare l’arrivo di un futuro immaginato minaccioso, che si arrocca nella sterile apologia di un passato che sappiamo idilliaco solo perché, appunto, è già trascorso. E tanto meno m’importa una banale, seppur lenta, prosecuzione del presente: chi vorrebbe un futuro simile ad un presente invecchiato? La lentezza a cui voglio costringermi è quella del darsi tempo per desiderare altri luoghi e altri tempi, è un procedere cauto che invogli il me viandante a scoprire tracce di sentieri nascosti e a varcare le soglie dimenticate. Quelle soglie oltre le quali, forse, ci aspetta Utopia, per non rassegnarci a dire con Nabokov che “il futuro non è che l’obsoleto al contrario”.

La mostra covid free (Allonsanfàn parte prima: Sergio Poddighe)

E chi lo può sapere quando finisce ‘sta cosa della pandemia. Ci sono fior fiore d’esperti che brancolano nel buio, s’arrabattano come alchimisti nel medio evo, facendo attenzione a non buttar giù le porcellane buone, a non turbare le suscettibilità dei tribunali dell’inquisizione social, che quelli maneggiano punizioni e torture peggio di certi tenutari di scantinati d’antichi castellacci e di anticamere di forche papaline. Insomma, si naviga a vista. Poche idee ma confuse. Posto questo, che mi pare di buon senso, quasi chiacchiera da bar, forse pure peggio, ci sarà poi da ricostruire tutto, economie sfasciate, casse pubbliche di cui si vedono fondi grattati, cose così. Poi, ciascuno, fa i conti con le proprie vittime. Mi pare che però pochi facciano i conti, a parte giusto i diretti interessati, con chi sceglie di campare d’arte, che già era cosa assai complicata in tempi di vacche grasse, ma ora che i bovini sono a stecchetto, attendono di attraversare il deserto. L’arte e la bellezza fanno abbassare il PIL, sono improduttive. Cioè, se compro un quadro bello, e mi posso permettere quello e poco altro, spendo quanto un paio di telefonini, ma il quadro, ch’è l’anticamera dell’inferno, ci sta che mi dura una vita, mentre il cellulare me lo danno a scadenza. Se poi alzo il prezzo, c’è poco da fare, sfioro l’automobile. Peggio, se compro un libro, e metti caso mi viene di leggerlo; richiede tempo, me ne devo stare ore e giorni davanti quelle pagine col rischio materiale che mi spunta uno spiritello critico in testa, m’arricchisco di prospettive inedite e non cash & carry. Tolgo tempo alla fila al centro commerciale, dove, altro che libro compro. Stessa cosa mi succede se mi vado a vedere una mostra o uno spettacolo di teatro, non solo tolgo tempo a cose che hanno più apPIL, ma poi me ne vengo fuori con strane idee.

Moralis de fabula, leggere, ammirare l’arte, la bellezza, sono abitudini da non coltivare, mi pare. Fatte salve alcune “nobili” eccezioni. Perché la cultura, per qualcuno, non è missione da cui ricavare somme gratificazioni dell’anima, e magari tirarci fuori di che campare con decenza, è cosa d’affari, di prebende, familismi, organizzazione del consenso. Mi posso, che ne so, per suadente lusinga del cliente, considerare che sono attore memorabile, fotografatore (da notare il neologismo, contraltare dell’accezione corretta) ispirato, dipingitore (anche qui, mi supero per politically correct, che potevo dire imbrattatele, ma sono persona dabbene) sublime, scrittore arguto e raffinato, e pure, a somma fortuna che s’accompagna ad un ego smisurato, essere cugino del sindaco, cognato dell’assessora, nipote del plurimilionario fabbricatore, che pensa ch’è meglio mi dedichi all’arte altrimenti mi balena in testa di metter bocca negli affari di famiglia. Beh, questi, che di prebende fecero virtute, la crisi non la patiranno, e si vedranno garantiti spazi e fortune, nonché notorietà imperitura, ora e per sempre. Che se poi, con umile portamento, gli chiedi di condividere almeno gli spazi, ti guardano come fossi il lazzaro senza speranza di resurrezione, ti rigirano il no sotto forma di c’è chi può e chi no: ed io può, che da quelle parti troppa cultura bene non fa.

Allora, a me, che di talento non dispongo, ma che per disponibilità economiche e temperamento, nell’arte trovo soddisfacimento per certe pulsioni elementari, mi viene in mente la pletora degli altri, che non li manda Picone e che non hanno facce le cui sembianze sono assimulabili ad altre zone anatomiche. Ecco, tra questi ce ne sono di bravi veramente, alcuni di talento portentoso, che hanno studiato, ma pare non abbiano diritto di cittadinanza, per carattere e ritrosia, talvolta, spesso perché non hanno santi in paradiso che li illuminano d’incenso. E allora io voglio fare una cosa. Una cosa da poco, roba che vale quel che vale, certe volte conta il pensiero. Io questo ho, il blog, e glielo apro, li presento, li ospito come fosse casa loro, anzi, è casa loro. Mi scrivo le mie cose, poi, spazio all’arte ed alla bellezza che altrimenti, ora come ora, non se le vede nessuno. Che importa se qui al massimo la vedono in sette o otto, sono sette o otto più di prima. E mi viene da pensare che se la faccio io questa cosa, poi c’è qualcuno che s’appassiona e reitera il gesto, così l’rt della bellezza diventa pericolosamente alto come quello del Covid. Magari rimane traccia. Se son rose…okkio al PIL.

E allora comincio subito con uno che trovo veramente bravo, perché me lo ritrovo magicamente tra il surrealismo di Breton e le copertine delle Mothers of Invention. Sergio Poddighe.

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano.

SERGIO PODDIGHE è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

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