Radio Pirata 49 (in merito alla questione)

Radio Pirata assurge a quota Quarantanove che mica è pizza e fichi, nemmeno si frigge con l’acqua da queste parti che pare ormai quasi telenovela brasiliana di mille e più mila puntata. Ed anche questa s’appresta a puntatona che c’è cosa che bolle in pentola di livello elevatissimo e redazione di radio pare impazzita a poter dare dettaglio improrogabile a fedele schiera di lettorascoltatore. Per il momento si fa lettore a parte che si parte di musica a razzo spedito che pare armato di testata nucleare prima di quella ad autentico botto per effetto speciale prossima ventura.

Che cominciamo speditamente a cronaca esatta di sacco di soldo che viaggia in terra di confine per esaltazione di grande evento di campionissimi a mutanda ad inseguire sfera rotolante. E ad apologia di sport tra gli sport s’aggiunge proclama d’alto profilo istituzionale di grandezza imprenditoriale per illuminato sovrano d’oriente che produce arena per reziario moderno con contenuto spargimento di sangue a poca roba che manco arriva a diecimila morto ammazzato per lavoro a sfrutto. Che c’è terra di rinascimento vero e mai presunto a fronte di deserto a colapasta per fuoriuscita d”oro nero, che vi fu in illo luogo rispetto autentico di diritto a stimolare rovescio per diversa tendenza sessuale, donna e lavoro di migrante coatto per miseria. Che mi dissi, così, per celia, che se sacco di soldi lo davo proprio a quelli impiegati a schiena rotta, forse che non c’era morto, ma poco importa a diritto televisivo che invece preferisce palla a rotolo.

Che paese nostro è altro che non quello, ma a quello c’è tendenza. Per ora si presume che carico di pullman di donna a mestiere antico sia di comprovata fede nostrale che così non turba sonno di calciatore a cui promessa di tale omaggio sublime venne fatto a carico di vittoria per calcio meglio ad incrocio di pali. Altra donna, bambino vecchio e quant’altro, con pedigree ben definito noi non si sfrutta, al massimo si concede annego libero a mare di tempesta. E se si sfrutta di fa a pudore autentico che non si vede, dentro serra a far leccornia per pranzo di festa a prezzo calmierato.

E c’è pure grande e dolorosa contrizione per donna e ragazzo, a rischio di vita per protesta a speranza di cambio di cose a terra che fu di Scià e che ora ad altro dice sciò. E a detta compagnia disgraziata di ribellione audace, ricordo che grande plauso generalizzato di perfettissimo per rispetto di democrazia coacervo di paese occidentale, dura a spazio di memoria di tal divenuto famoso a Collegno in tempo andato, e che scanna e ammazza fa specie fino a prossima puntata di indecenza. A testimonio rimembro come parve rito di commozione generale donna afgana tornata a medioevo, che indignazione durò tempo esatto di sbadiglio e poi mi volto d’altra parte che non è fatto mio.

Mi dò a carrellata di foto che è a spiaggia mia deserta e desolata, senza manco un barettino, un lidotello nemmanco un bagnomaria, che è cosa assai opinabile per fautori meritevoli di grande merito. In detta spiaggia, che è cosa da brivido e fastidiosa sabbia nelle mutande, non c’è olivetta annegata a shortino, non c’è spa, nemmeno sdraio ad ombrellone a prezzo di superattico, non c’è ombra di ristorantino di tropicalprodotto sovrano, ed incomprensibilmente pure accesso è gratis, che non c’è che vista ad infinito e basta.

Mi venne però dubbio – anche per sciogliere quesito di mia identità, ch’io sostenni erroneamente d’essere nessuno, smentito da elevatissimo intelletto – se risultai ascrivibile, in quanto frequentatore assiduo di detta spiaggia a godimento gratuito di libera solitudine, a categoria di tossicodipendente, rifiuto, o ad entrambe.

E a proposito di tossici e rifiuti, ne ho trovato uno una volta, proprio su una spiaggia libera, straparlava, poveretto. Lo registrai, così vi dico che disse. “

Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa ch’io vi dica quanti – avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po’, e di vedere così la parte acquea del mondo. Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione.

Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola.

Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c’è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l’altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per l’oceano su per giù gli stessi sentimenti miei.” (Herman Melville)

Battigie (e migranti che – a volte – tornano)

Ché ci sono corsi e ricorsi storici, conviene tener presente quando si ripresenta cosa gradita, senza aggiungere altro a ciò che s’è detto. E siccome ricapita ciò che già accadde, ve lo racconto come già lo raccontai, semmai d’aggiorno a musica.

“A quell’ora di mattina a mare non c’è nessuno, o se qualcuno c’è è incontro pregiato, che non puoi fare se quel qualcuno è pure troppi. In troppi non c’è silenzio, nemmeno senti il mare che mugola, e si capisce che non gradisce la folla, ama rapporti esclusivi, comunque un po’ per volta. Gli altri, in troppi, sono soli. Stamattina, che il sole s’era messo appena l’abito da giorno, c’era un bluesman che vendeva granite col suo furgoncino. Mi dice che le fa con i limoni del suocero mentre mi offre un caffè freddo (caldo non lo fa). Poi si mette a suonare una Telecaster con un piccolo Marshall. Mi spiega che ha imparato una scala di Fa, anche se a me pareva che un mezzo tono di scordatura la facesse più Fa diesis. Ma suonava bene lo stesso, e se lo poteva permettere, che i clienti ancora per un paio d’ore non si sarebbero visti. C’era una schiena scura al largo, un attimo, poi è sparita, pareva un delfino, o forse era un gioco d’onde.

Mi racconta – l’aveva già fatto altre volte, ma mi faceva piacere ascoltarlo – che prima lavorava in Germania, sacrifici per i figli, “ora sono grandi e sistemati”, e lui può fare quello che gli pare, anche suonare il blues. “Sto prendendo lezioni, ma in estate preparo anche le pizze, e mi tocca che suono la mattina presto qua, se no mia moglie mi butta fuori di casa”. Un migrante, come me, che poi torna, perché si torna sempre. Mi bevo il caffè lentamente, poi pure mi faccio la sigaretta, con uno standard di Bessie Smith che suona dai vecchi altoparlanti sopra il frigo delle granite, mentre la chitarra è finita in un angolo del furgoncino. M’è sopravvenuto un pensiero in testa, pure mi serve a guadagnarmi qualcosa ancora lì di spettacolare e marino, prima che i pinguini non compiano i loro rituali d’assembramento (e non me ne vogliano i pinguini, che hanno molta più fantasia).

Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo.

Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento, pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

L’isola che non c’è più (ancora meno)

Ci vado ogni tanto, e aguzzo gli occhi tra i faraglioni, scruto l’orizzonte questa volta non per cercare la sorpresa, ma qualcosa che m’aspetto ci sia. L’ultima volta è stato qualche giorno fa. Niente, non c’era niente. Si, l’alta marea inganna. Ho montato uno zoom più potente, che mi spinge l’occhio un tantino più in là. Ma la calma piatta non si rompe da lì all’infinito, non v’è traccia di quello che m’aspetto. Non mi rimane che contemplarla, l’isola intendo, nella foto che fa da testata al mio blog in premonitrici forme crepuscolari. Pure la voglio ricordare così, come ne ho parlato solo qualche mese fa che ancora si vedeva.

“Le rughe dell’altopiano, scavate dalle lacrime di Gea, si distendono di meraviglia mentre s’approssimano al mare. E gorgheggiano ancora nei pantani immediatamente a ridosso della costa, salmastri come si compete all’emozione a tinte forti che li ha prodotti. È terra che s’immagina, tanto nelle memorie latine, quanto in quelle arabe, sia stata approdo di Ulisse, uno dei tanti Marsa at Bawalis che non c’è terra del Mediterraneo che se ne sia privata. Forse, per quella vegetazione accesa da Eden ritrovato dell’ultima ruga, prima della grande evoluzione dell’orizzonte, mi sovviene potesse trattarsi di terra di Lotofagi, ma non insisto, poiché nessuna comunicazione ufficiale m’è giunta da poeti con difetti visivi. V’era, su quella costa – così diceva un tal Camilliani, architetto bergamasco esperto di fortificazioni, che la costa della Trinacria, nel XVI sec., se la fece a periplo per studiare la difesa dell’indifendibile – un castellaccio prossimo ad un paese diruto. Poi, per secoli, solo povere case sparse sull’instabilità di dune alte come nel deserto più interno, celate da canneti e lentischi, tra le gemme azzurre e bianche di stagni e sale.

Ne parlavano come la Valletta dei Lupi, a certificare che quella era terra di nessuno, un tempo martoriata dalla malaria. Non c’era la fila per andarci. Così, deserta, me la ricordo, allorché, certe domeniche, si faceva festa nella cascina a fianco la vigna della vecchia zia, dove le uve succhiavano, pur di sopravvivere, acque salate dal mare. Così il vino veniva su aspro e sapeva di mare e terra insieme, che al palato non distinguevi il confine. A berselo per buttar giù le telline, abbondanti pure se tiravi su solo un pugno di sabbia dal bagnasciuga, era esperienza che riconciliava col tempo che passa, poiché lo bloccava come la sbarra faceva con la fila dei carretti di sale e lupini al passaggio della littorina. Dirimpetto alla costa, a spezzare la linea dell’orizzonte, c’è quella striscia di terra, cento metri di scoglio affiorante con un piccolo faro che vi sporge lateralmente, perché le navi che trafficavano il Mar d’Africa sin dai Fenici, non finissero per farne conoscenza rumorosa. Ci andavo a nuoto con una camera d’aria a traino, per non sfinirmi, e lì, maschera e coltello, dopo aver assaggiato il mare nello scrigno dei ricci, mi concedevo la spesa dei polpi per l’insalata della sera. Ci cresceva poco sopra, troppo stretta e troppo a mare, solo i porri selvatici che le avevano dato il nome. Chissà come c’era finita lì quell’isola! Forse un bradisismo, o forse era ciò che restava d’un istmo che le correnti avevano amputato. Fatto sta che mare a destra, a sinistra, a nord, pure a sud, mi pareva che stavo viaggiando con una zattera alla deriva. E gli anfratti rocciosi erano le stive per i miei arnesi da pesca e di certi sacchetti di iuta. Tutta roba che ci ritrovavo al mio ritorno. Chi toccava niente lì? Ed anche qualche pirata vi fosse sbarcato, che ne so, alla ricerca d’un tesoro nascosto, certo non si sarebbe emozionato alla vista d’un paio di coltelli arrugginiti, un gancio incordato ad un tubo di zinco, e quel po’ di contenitori di prede preziose, lì all’uopo per essere riempiti. E ne avrei riempiti anche con lenze ed ami, che lanciavo più a sud, verso l’orizzonte aperto, dalla prua della mia gigantesca ed inaffondabile nave. Ebbi pure compagnia, senza saperlo, poiché lì ci ritrovarono i resti sepolti d’uomini e donne, forse i familiari dell’Emiro Ziyadat Allah III, che qui li seppellì dopo averli trucidati, temendo per loro la peggior sorte d’una sospetta congiura di palazzo.

Nelle giornate in cui pareva che si fosse un tutt’uno col mare, riconquistavo la terra ferma a bracciate stanche e disordinate, che certe navi rocciose così grandi toccano il fondo e non possono attraccare. In spiaggia mi pareva che la cosa più sorprendente di quel viaggio fossero le stelle pittate sulla sabbia da mano d’artista. E la passione di fare castelli di sabbia d’ogni fatta che il tramonto colora di rosso.

Poi qualcuno s’è avveduto che quello era posto di meraviglia, e casa su casa, orrore su orrore, è venuto su un paese che quasi si bagna le fondamenta a mare. Ed i bagnanti fanno chiasso che i cavallucci sono fuggiti atterriti e non ce n’è uno manco a pregarlo in aramaico.

L’isola, invece, piano piano sparisce, quasi non si vede più. Me ne serbo il ricordo antico nella vecchia foto della testata di queste note al margine. Ma non è cosa ch’attiene a leggende o fugaci apparizioni come per certe Ferdinandee. Dicono che è la corrente che se la sta mangiando, quella spostata là di forza dal grande porto a ovest. Macché, figuratevi se il mare si mette ad ammazzare la sua bella figlia, rispondo, l’isola se ne sta andando da sola, di sua volontà, che quello schifo non lo regge. E ne ha ben donde – o d’onde, fate voi – , direi”.

Battigie (e migranti che tornano)

A quell’ora di mattina a mare non c’è nessuno, o se qualcuno c’è è incontro pregiato, che non puoi fare se quel qualcuno è pure troppi. In troppi non c’è silenzio, nemmeno senti il mare che mugola, e si capisce che non gradisce la folla, ama rapporti esclusivi, comunque un po’ per volta. Gli altri, in troppi, sono soli. Stamattina, che il sole s’era messo appena l’abito da giorno, c’era un bluesman che vendeva granite col suo furgoncino. Mi dice che le fa con i limoni del suocero mentre mi offre un caffè freddo (caldo non lo fa). Poi si mette a suonare una Telecaster con un piccolo Marshall. Mi spiega che ha imparato una scala di Fa, anche se a me pareva che un mezzo tono di scordatura la facesse più Fa diesis. Ma suonava bene lo stesso, e se lo poteva permettere che i clienti ancora per un paio d’ore non si sarebbero visti. C’era una schiena scura al largo, un attimo, poi è sparita, pareva un delfino, o forse era un gioco d’onde. Mi racconta – l’aveva già fatto altre volte, ma mi faceva piacere ascoltarlo – che prima lavorava in Germania, sacrifici per i figli, “ora sono grandi e sistemati”, e lui può fare quello che gli pare, anche suonare il blues. “Sto prendendo lezioni, ma in estate preparo anche le pizze, e mi tocca che suono la mattina presto qua, se no mia moglie mi butta fuori di casa”. Un migrante, come me, che poi torna, perché si torna sempre. Mi bevo il caffè lentamente, poi pure mi faccio la sigaretta, con uno standard di Bessie Smith che suona dai vecchi altoparlanti sopra il frigo delle granite, mentre la chitarra è finita in un angolo del furgoncino. M’è sopravvenuto un pensiero in testa, salvo poi accorgermi che l’avevo già scritto, che la fantasia non m’arride. Però riciclo, che non si butta via niente, pure mi serve a guadagnarmi qualcosa ancora lì di spettacolare e marino, prima che i pinguini non compiano i loro rituali d’assembramento (e non me ne vogliano i pinguini, che hanno molta più fantasia).

“Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

L’invasione

Non è che le restrizioni a me mi siano pesate tutto sto granché. Certo, le mie bettole scalcagnate mi sono mancate. Pure le puntatine a mare. Ma sono persona di costumi parchi, che s’accontenta. Adesso s’avvicina un’estate di libertà suadenti, con gli esami – che non finiscono mai -, mi lascio alle spalle il peggio, mi concedo certi privilegi. Ma questa che ciclicamente s’affaccia è per me anche stagione di dialettiche serrate, frutto di antiche disfide. Ma che ultimamente sembrano risolte. Io e il mio ginocchio sinistro, infatti, abbiamo raggiunto un equilibrio. Cioè, conversiamo amabilmente: io gli comunico cosa mi piacerebbe fare e lui ne prende atto, anche se però fa di testa sua. Mi piace questa sua capacità di ragionare con la sua testa, ancorché, talvolta, sembra farlo in modo che a taluni parrebbe animato da volontà sperequative nei miei confronti. Inizialmente gliene facevo una colpa, lo rimproveravo, gli rinfacciavo la ossequiosa obbedienza del suo gemello, quello di destra, intendo. Poi ho cominciato ad apprezzarne l’autonomia decisionale, l’imperturbabilità rispetto ai diktat definitivi ed assoluti, quella certa insofferenza per le gerarchie. In estate le nostre conversazioni si fanno più serrate, talvolta appaiono come delle vere e proprie disfide. Ora, mi pare evidente che io dipendo da lui almeno quanto lui dipenda da me, e il nostro è un rapporto orizzontale, credo ci sia rispetto reciproco. La mattina, quando sono laggiù, mi alzo presto, mi piace raggiungere il promontorio d’ora piccola, quando le masse ancora smaltiscono le bisbocce della sera prima.

Quindi, prima di avviarmi sull’arenile, concordiamo una linea di condotta. Io lo interrogo sulle sue volontà della mattina, in particolare gli chiedo se gli andrebbe il piccolo trotto sulla spiaggia, oppure il passo svelto, quello che fa bene al colesterolo – cerco di blandirlo dicendogli “siamo parte di un tutto, ne avresti giovamento anche tu” -, oppure la passeggiata meditativa. So che qualunque sarà la scelta lui agirà in modo estemporaneo, deciderà sul momento se cedere di schianto, oppure bloccarsi, gonfiarsi come un prosciutto, o scricchiolare con raccapriccio, nell’atto di volermi comunicare rumorosamente il proprio dissenso. Di recente non obietta, credo abbia gradito certe pasticche comprate in erboristeria che lo rianimano, lo fanno sentire più appagato e considerato, non più una minoranza sfruttata e relegata in un angolo, laggiù in basso. Certo, obietto io, va bene non consentire la corsettina, ma anche tu, che vizi borghesi: pasticche, ciascuna delle quali costa quanto un caffè espresso. Ed a proposito di caffè, è di questo che si tratta. Insomma, l’arrivo al promontorio prelude, a prescindere dall’accordo col mio ginocchio, alla sgambata in tenuta da Orzowey sino al borgo. Tre chilometri esatti da percorrere sull’arenile deserto, poi lì caffettino al chioschetto, quindi il ritorno, gli stessi tre a ritroso. Giunti in prossimità del promontorio nuotatina, sigarettina (l’abuso di diminutivi, è frutto di un certo meridionalismo che mi è rimasto appiccicato addosso, ed ora non riesco a sbarazzarmene, di questo mi scuso), poi a casa, prima che il sole divenga cattivo e che, soprattutto, le masse rumorose, con i loro ombrelloni branditi a mo’ di Durlindane, i tamburelli schioccanti, i palloni sgonfi, solletichino certe mie mai del tutto sopite agorafobie. Sul finire della scorsa estate, però, durante la sgambata, succede una cosa strana: a guardare la TV quella spiaggia dovrebbe essere invasa da torme di selvaggi inferociti con l’osso al naso e la sveglia al collo e che preparano pentoloni per bollire l’uomo bianco. Ed invece, altro che migranti, l’invasione c’è, ma di extraterrestri. Ve l’ho detto, io sgambetto sull’arenile come Tarzan, in costume da bagno e piedi scalzi, non mi formalizzo, sono un uomo rozzo, la spiaggia dal mio punto di vista limitato serve a questo, tanto più che è libera. Quelli, invece, si capisce che non sono di questo mondo, che sono creature d’altri pianeti, giacché sono abbigliate in modo diverso: si, all’apparenza sembrano come noi, come noi da molto giovani, ma poi indossano tutine attillatissime, mi dicono traspiranti, aerodinamiche, per fendere l’aria mentre corrono, penso, o per difendersi dai germi aggressivi del nostro pianeta. E poi hanno fili che li avvolgono dappertutto: fili che vengono fuori da fasce ai polpacci, ai polsi, alla cinta, al collo, alle caviglie e poi orecchie tappate con cuffie ed auricolari (credo dipenda dal fatto che nel loro pianeta il rumore della risacca sia considerato un po’ come da noi certa musica e, giustamente, se ne isolano), occhiali iridescenti, forse i resti di uno scafandro da astronauta, scarpe con sospensioni ed ABS. Io mi sento a disagio, e quando leggo nei loro occhi l’espressione di disgusto nel vedermi al trotto conciato in quel modo primitivo, mi inibisco e rallento (pratica in cui sono un esperto). Non vorrei dare dei terrestri un’immagine di generica trascuratezza. Ma che ci sarà collegato a tutti quei fili, gli strumenti con cui comunicano con l’astronave? O forse hanno paura di perdersi in spiaggia e si portano dietro un navigatore astrale? Il punto è che la spiaggia ne era piena. Ora, in attesa dell’arenile prossimo venturo, profittando dalla parziale libertà concessami dal nuovo colore regionale, la mia passeggiatina me la faccio sulla ciclabile accanto al fiume. E altri ne vedo, pari a quegli altri dell’estate. E allora, delle due l’una, o hanno completato l’invasione, e quelli della mia specie, i terrestri, intendo, se li sono portati sul loro pianeta per il ripopolamento di certe foreste spaziali, oppure… oppure, non me ne sono accorto e l‘extraterrestre sono io. E vabbè, come faccio a capire certe cose, sono cose d’altri mondi.