La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Chiare, fresche e dolci acque

“Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo”. (John Stuart Mill) Non mi privo – e vi privo – di musica d’accompagno a lettura, che quella sempre m’è gradita che d’altrettanto spero fa a voi.

Che mentre mondo s’attrezza a bombarda collettiva, che ovunque c’è puzzo di zolfo e polvere da sparo, stragettina in qui ed in là, io, a ozioso vizio, mi concessi giorno di pausa a mezza mattinata, che invero mi toccava fino a punto non certo, ma m’obbligai a sosta forzata che batteria appariva di tragico usurata ed esausta. Insomma, che di pausa d’ozio feci virtù che stravolsi paradigma corrente, me ne andai a rinfrescar meningi ed affini a riva di fiume, che mare m’apparve di difficoltà a raggiungerlo a tempo breve di previsto. Feci, ordunque, puntata a chiare, fresche, dolci acque, pure m’avventurai a calura di deserto tra bosco ubertoso lungo riva sinuosa di corso che fu per risciacquo di panni.

Ma m’avvidi ancora che grande fiume fu a riduzione di sputacchio appena, che a sciacquar panni lì si finisce che si parla lingua sconosciuta, grammelot di verbi e sostantivi che, pur aggettivati d’opportuno, paiono lingua satanica, che a zozzume di stagno parve ridotta qualità di scorrimento. M’avventurai financo a torrente immissario, dove, a più riprese ed a medesima stagione, per fuggir da prima canicola, svelai marmitta di giganti per tuffo doppio carpiato, che ora pare pentolino di gnomo, con trota che respira a bombola d’ossigeno ed a me m’è appena sufficiente per miserabile pediluvio in liquido che pare brodaglia di cece. Fu fortuna che la seccagna svelò sassi in quantità di molto più che di solito, ch’io con essi sempre intrapresi conversazione a dialettica serratissima.

Però, anch’essi convennero che c’è caldo assassino come non è dato a stagione che nemmanco è ad ufficialità d’estate. Ed alla fine ci fu concordia che preoccupazione per bombarda d’altrove pare specchietto per allodola che bombarda è a testa d’ogni creatura che calpesta la terra, ovunque essa viva è a sete d’esagero. Che pure masso placido a riva un tempo vicina, ottima seduta, fu d’accordo ed espresse condivisione senza infingimento. Pure, pensai, che qualcuno gioca a briscola pazza, che solleva polvere per questo e tal altro fatto, che di cosa d’importantissima esigenza a risoluzione a ne parlo poco è già troppo, meglio niente. Che questione di guerra di zar, di strage di qui e di qua mi pare ad edificio d’abuso senza piano regolatore, che cambia skyline di pensiero collettivo che collettivo non è ad attrezzo di casco giusto a misura che cielo casca in testa.

Radio Pirata 7 (Peace & Love & Buona Domenica)

Che se ne venne giù neve imprevista, e freddo e gelo nemmeno ebbero comprensione per me che nacqui d’Africa che neppure se ne avvide solerte funzionario d’anagrafe a registrazione. Pure m’abortì passeggiata in riva al fiume, di riconciliazione a mondo. Ma faccio di necessità virtù e vado di Radio Pirata, che oggi faccio a buona domenica ed a vocazione corsara. Prendetevela comoda,

Corro fuori a cappuccio a terrazza per protezione a telo per fichi d’India che m’accompagnano da che son nato. Messi a neve mi fanno che passo per scemo, ma quelli reggono bufera che me lo fanno perché mi vogliono bene.

Pure mi pare che fanno omaggio a vita, e le spine sono solo un sovrappiù che cautela impedisce di conoscere a malo modo. Ho orecchio che passo per così così a Q.I. che ce li tengo a quota s.l.m. improbabile, tra bosco di faggio e roverella. Ma tant’è, d’un pezzo di mondo che è mio non mi nego compagnia.

Che fuori digrigna il vento di guerra, che mi sono deciso che oggi lo ignoro. Mi feci persuaso che guerra è che spesso se ne parla a portafoglio gonfio di giornalaio, che di pace e amore nemmanco se ne fece cenno, pare non facciano accise, forse manco esistono, che su faccialibro non se ne fa cenno. Se mi fumo sigarettina su scoglio a brezza leggera che arriva d’Oriente, pure se sono feroce reziario, mi pare che mi passa voglia di sventolare la daga.

Che d’attenzione al niente ch’è tutto, mi scuoto solo s’arriva Pilu Rais e mi porta lo sgombro che d’oceano ha il profumo. Più avanti Zio Turi ha i pomodori.

E dopo che quello te lo sei passato di griglia, con il limone d’albero del vescovo, che hai espropriato dei frutti – pure con qualche soddisfazione -, ci hai mangiato accanto un’arancia rossa a cristallo di sale e olio di Zio Turi, pure di rosso hai tinto il bicchiere, ti viene voglia d’una cosa sola, che certo non è guerra. E che non si perda occasione a iosa, che poi non torna, che di tempo ne rimane sempre assai poco ed è meglio s’impieghi così, che non a lambiccarsi d’altro che non serve.

E buona domenica, di bandiere bianche.

La calce ed il cotto

Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Codicillo in forma di paese

Non ho nostalgie ricorrenti per i bei tempi andati, giustappunto perché v’era da far fatica e della fatica me ne intendo, tant’è che, qualora se ne presenti l’occasione, desisto dal frequentarla. Ma di certe cose m’avvedo come di tesori perduti, che il tempo s’è portato via senza chiedere il permesso. Le pescosità marine, per buttarla lì, mi perdurano dentro, certe coste intonse e disperate d’approdi a falesia a strabocco sul blu. Pure, indugio a struggermi del ricordo del quartiere, storico e ben piantato sulle fondamenta antiche. Certe ricorrenze di memoria mi paiono messe lì a bella posta per indispettirmi della loro assenza. Ma vi è una sorta di destino ineluttabile nei centri storici. Mi sa che è per questo, ovunque vada e nel mio pellegrinaggio a destra, pure a manca (in senso geografico, che per altre nature ho fatto radici), da nord a sud e viceversa, che ho deciso di non rinunciare ad abitarvi. Ma la scelta, ch’è, immagino – un tantino sperandolo -, definitiva, cade sempre su una delle due possibili evoluzioni che ci è dato di conoscerne, pur con qualche eccezione in quanto tale straordinaria. O diventano supermercati/eventifici, per la gioia ed il solluchero di certi boiardi non di vedute amplissime, popolosi di signore contesse leopardate e marchesi merlettati di coppale e coccodrilli, con monolocali che costano quanto castelli sulla Loira, e ristostelle ad ogni piè sospinto; oppure, piano piano, s’abbandonano a se stessi, che chi li ha animati nei secoli è fuggito necessitato nel farlo (gli casca il tetto in testa e le muffe lo aggrediscono fisicamente, così s’accordano per la deportazione nei cubi cementifici 30×30 della Suburbia), o perché il quinto piano termoascensorato semplicemente più li aggrada. Pur nella dolorosa nostalgia di odori di fritto, bimbi più o meno calzati che strapiombavano per le stradine scoscese, mercanti a bandezzo, donne vestite di salsedine, abbondanti d’esposizione di preziose merci d’antiche artigiane, adoro il silenzio della decadenza di quelli diruti e spopolati. Me ne approprio, talora, come fosse respirazione d’ossigeno puro, e li attraverso ferocemente gaudente, pronto a sguainare l’obiettivo, non per cristallizzare l’istante, renderne permanente la narrazione, piuttosto per la ricerca inversa, che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo, che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto, per un periodo effimero. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che l’obiettivo disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante dello scatto. Questa ricerca non può che consumarsi dentro un percorso di riscoperta identitaria, dunque, che non rinuncia a ripartire da qualcosa che, profittando dell’estinzione di massa, si riprende i suoi colori anche quando il senso d’abbandono appare ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto sublime e collaterale di questo cammino, è la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, a chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana.

Appare, invece, quale irrinunciabile taumaturgia agli occhi di chi non venne irretito dalla consuetudine. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin), e questo impone il viaggio lento, dentro i silenzi che in una condizione “urbana” e convenzionale non sono previsti, appartengono, semmai e nell’immaginario, solo a certe valli antiche e remote, ai più profondi dei boschi. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito, da dietro persiane serrate dietro un occhio scuro che spia il transito inatteso, allarmato forse dallo scalpiccio, ormai desueto, lungo scalinate labirintiche, dentro il profumo di intingoli che sanno di memoria. Si dipanano – pure compiacendosene – le attese lunghe e pazienti, sinché i raggi sghembi del sole d’una certa ora, o qualche goccia di occasionale pioggia, non vivificano le coloriture di vernici dismesse, frammenti di intonaci, infissi scorticati. Dettagli d’umanità senza presenze, che riconciliano con certe dimensioni perdute, alternative ed ostili al mordi e fuggi, all’unica prospettiva dell’ora e subito. E del dedalo dimenticato, non rimase che l’opera collettiva di popolo e tempo, bellezza che riesce a farsi vanto delle sue rughe più profonde, senza riguardo, invero, per l’estetista.

Impegni improrogabili

Che poi, se non hai un progetto, pure una cosarella così così, ti senti che non ti impegni abbastanza.

Ma di progetti ne ho a bizzeffe, solo non mi ricordo dove li ho messi. Mi capita che taluno e talora me ne faccia promemoria. Allora, con spirito di sacrificio ed abnegazione, approfittando di questa specie di clausura cui anche un tempo grigio – direi quasi impertinentemente ed ossessivamente grigio – mi costringe (ma non solo me), provo ad organizzarmi il materiale per quel progetto. Faccio selezione, riordino, rivedo, per almeno cinque minuti. Poi è sigaretta a luci spente, e jazz. È che il tempo grigio, se sei a mare, pure te lo godi, che c’è il vento, magari un pescatore che tira su la ricciola e contratti per avercela, che ti va un’”acquapazza”. Anche se ti siedi su uno scoglio e basta va bene uguale. Ma poiché pioviggina, si direbbe sul bagnato, e dal mare disti secoli luce, un po’ t’avvilisci, che non puoi nemmeno andare al fiume, dove ci sono sassi lisciati per bene dalla corrente, ed io con quelli spesso m’intrattengo in lunghe conversazioni, talvolta dotte. Conto di non avere noiosi contraddittori. Il fiume, poi, se ne scorre verso la costa per definizione, magari ci arriva prima di me, e io posso consegnargli un messaggio per il mare, fisso un appuntamento.

Le cose vanno a rilento, com’è d’uopo, e allora riciclo stanchezze (anche il riciclaggio, del resto testimonia d’una condizione dell’anima), nel tentativo di dare una giustificazione a certe mie spigolature caratteriali poco avvezze all’azione preordinata, nemmeno a quella istintiva, a dire il vero. È che io mi rendo conto di essere pigro, e nonostante questa cosa mi rendo pure conto che ho fatto un sacco di cose che non avrei dovuto fare. Proprio come, per peccato originale, ho lasciato perdere un mucchio di cose che invece non avrei dovuto lasciar perdere. È fatto congenito alla pigrizia pescare a casaccio tra le cose. Talvolta ti va bene, altre meno. Funziona così, non c’è verso.

È la cosa che mi riesce meglio essere pigro, a tratti persino ozioso. Però, poiché conosco la pigrizia – la frequento parecchio e da tempo immemore -, invito caldamente tutti a diffidare dei pigri, poiché mi sono avveduto, ed in più d’una occasione, che spesso fingono soltanto di esserlo. C’è una gran numero di pigri in giro, farabutti d’ogni fatta, nullafacenti cronici, ma è assai difficile trovarne uno autentico, col marchio DOC. Perché il pigro vero, non è tipo che se ne va a zonzo senza far nulla. Il pigro genuino, quello d’autore, è sempre straordinariamente indaffarato, ha sempre un mucchio infinito di cose da fare. Troppo facile fare il pigro, l’ozioso, se non si ha nulla da fare. In quel caso come fai a goderti la pigrizia? Certo, tutti sono bravi a non fare niente se non hanno niente da fare. La sfida autentica è proprio quella di riuscire a non fare niente mentre sei oppresso dalle cose da fare. Una cosa così ti dà la patente di pigro, ti mette in cattedra, ti fa diventare l’imperatore di Pigrizia, quella terra senza confini, talmente grande ch’è difficile scorgerla se non ci sei nato.