Dizzy for President

Il 6 gennaio del 1993 ci lasciava John Birks “Dizzy” Gillespie. Qualche anno prima – non ricordo quanti – l’avevo visto in concerto all’Anfiteatro Romano di Siracusa. Che delizia autentica. Era spettacolo anche quando non suonava, con quel faccione, le braccia lunghe, quel balletto accennato quando, nella dialettica della musica, lasciava spazio agli assoli degli altri musicisti. A vederlo con la sua band era chiaro cosa intendesse Winton Marsalis quando diceva che “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ma anche c’era il pensiero di Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. La sua tromba piegata all’insù puntava il cielo, le gote gli si gonfiavano così tanto che pareva si sarebbe librato in volo, leggero, come una mongolfiera. Fu quasi ovvio, conseguenziale, che la signora alla mia sinistra sussurrasse, ridacchiando, “Polvere di stelle” quando, l’ennesima volta che scuoté il pistone per svuotarlo, mi beccò di rimbalzo con le sue polluzioni. Me l’ero cercata giacché, impudicamente, m’ero messo a sgomitare per raggiungere il posto più prossimo al palco proprio in quell’istante, e fu fortuna che un’altra signora, assai più compassionevole e meno sarcastica della prima, m’offrisse un kleenex. Superato rapidamente lo sgomento, l’episodio non riuscì a scalfire la mia estasi. Fu cosa memorabile, ahimé, irripetibile.

Nato a Cheraw, il 21 ottobre 1917, in una famiglia poverissima, cominciò a suonare la tromba quasi per gioco che aveva 12 anni, da autodidatta. Il padre si dilettava a picchiare lui e i suoi fratelli piuttosto spesso, ma era morto già da un paio d’anni. Lasciò casa per andare a studiare all’istituto di Laurinburg grazie ad una borsa di studio, troppo povero per potersi permettere scuole a proprie spese. Nel 1935 fece a meno pure della scuola per trasferirsi a Filadelfia. Vi trovò lavoro come musicista, suonando con Frankie Fairfax e con la band di Teddy Hill, con la quale produsse la sua prima registrazione subentrando a un mostro sacro quale Roy Eldridge. Le sue collaborazioni, in quegli anni, furono rilevantissime per costruirne l’identità musicale, suonava a fianco di gente come Cab Calloway, Lionel Hampton, Mario Bauza, Milt Hinton, Coleman Hawkins.

Appena cominciati gli anni ’40 era già a New York dove mise su un trio con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria, la formazione che possiamo considerare la prima autenticamente bop. Suonano soprattutto al Minton’s dove le jam session con Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, tanti altri, sono continue. Fondamentale, in quegli anni, è il suo ingresso nell’orchestra di Earl Hines, di cui fa parte anche Charlie Parker e, l’anno dopo, in quella di Billy Eckstine. Con questa gira gli States emancipando il bebop dalla sua nicchia originaria di espressione musicale tipica dei locali notturni newyorkesi. Ma è in quelli, non nei grandi teatri con le grandi orchestre, che il bebop aveva preso forma. Il suono al Minton’s Playhouse, la casa natale del bebop, è ruvido, profondamente identitario, ha arrangiamenti semplici e diretti, senza fronzoli, poche, scarsissime concessioni allo swing, alle cose delle orchestre che facevano musica molto attenta a sofisticati arrangiamenti, quella che piaceva ai bianchi. “Io cerco di suonare la pura essenza, lasciando che tutto sia giusto come dovrebbe essere.” (Dizzy Gillespie) Il Bebop era la musica degli afro-americani che si riappropriavano dei propri spazi, della propria unicità, anche a costo di perdere ingaggi, di rimanere marginali. Fu proprio Dizzy tra i primi ad usare le due note, be, bop, a chiusura del brano. Ma quello non fu solo movimento musicale, parve più stile di vita, modalità di ribellione al consueto di quegli anni. Era roba che piaceva anche ai ragazzi della beat generation: “A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.” (Jack Kerouac, On the Road, 1957)

Bird è stato lo spirito del movimento bebop, ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme tutto”, dirà Miles Davis nella sua autobiografia. Proprio Davis lo sostituirà con la sua tromba a fianco di Charlie Parker, quando, nel 1947, Gillespie fonda la sua nuova band con il pianista John Lewis, il vibrafonista Milt “Bags”Jackson, Kenny “Klook” Clarke alla batteria e Ray Brown al contrabbasso, praticamente una prima visione del Modern Jazz Quartet.

Pure se aveva concepito le sue sperimentazioni più ardite dentro piccoli gruppi, Dizzy Gillespie amava di gran lunga esibirsi con le grandi orchestre, lì poteva esprimere tutto il suo talento istrionico, tutta la sua naturale propensione ad essere punto di riferimento sul palco, leader naturale. Dentro quelle forzava il suo bop, non riusciva a rinunciarci: “Mi ci è voluta tutta la vita per imparare cosa non suonare” diceva. Con le sue Dizzy Gillespie Big Bands, spesso effimere per durata a causa dei costi eccessivi, portò la sua musica in giro per il mondo, in particolare in Europa. Furono gli anni in cui la sua tromba rivolse la campana verso l’alto, cosa che non si era mai vista prima, frutto della natura di spettacolo pirotecnico dei suoi concerti. Una sera, prima di lui, si era esibito sul palco il duo comico Stump and Stumpy. Nella bagarre divertita i due gli fecero cadere la tromba deformandola, ma a Dizzy quella forma così particolare piacque, pure il suono che ne veniva fuori gli parve migliorato. Aveva raccontato questo episodio nella sua biografia, chiarendo un altro aspetto caratteristico del suo modo di suonare, il rigonfiamento anomalo delle gote quando soffiava nello strumento le sue sfuriate, cosa assolutamente vietata dai puristi della teoria, della tecnica. Secondo Dizzy fu un medico a spiegargli che quel fatto era, con ogni probabilità, frutto di una qualche reazione fisiologica incontrollabile, forse dovuta ad una sindrome misteriosa.

Nel 1953 partecipa al grande concerto del Massey Hall di Toronto insieme ai più grandi di quegli anni, Max Roach, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell. Ne venne fuori uno dei più importanti dischi jazz di tutti i tempi, ma anche parve di trovarsi davanti ad una sorta di de profundis per il bebop, forse troppo ostico per i mercati discografici più convenzionali. Cominciava del resto ad affermarsi in giro l’hard bop dell’astro nascente Clifford Brown, c’erano nell’aria i prodromi del free jazz. Molti musicisti neri cominciavano a studiare seriamente, non si limitavano a invenzioni autodidatte. Sul giro classico del blues inserivano tecnicismi solistici sempre più sofisticati, pur non rinunciando mai all’improvvisazione. Horace Silver, Charles Mingus, Art Blakey, Cannonball Adderley, Thelonious Monk e Tadd Dameron scelsero di percorrere quella strada, sino agli approdi modali del jazz dei primi anni ’60.

Dizzy, invece, continuava a suonare la sua musica, rimase fedele ai suoi “ribelli” minimalismi fondativi, anche quando decideva di contaminarsi con espressioni apparentemente lontane. Brani essenziali come Manteca e Tin Tin Deo, sono il risultato perfettamente riuscito di una fusione del jazz con altre esperienze, in questo caso con la musica caraibica. La passione di Gillespie per i ritmi latini continuò per anni, la sua curiosità per quel mondo lo portò pure ad intraprendere percorsi comuni con il musicista cubano naturalizzato americano Arturo Sandoval. Sandoval era, dal canto suo, affascinato dai suoni del bebop, e fece il suo ingresso nella band di Gillespie, The United Nations Orchestra, a partire dal 1977. Molte altre furono le collaborazioni che Dizzy ebbe con artisti non propriamente jazz, Chaka Khan, Ray Charles, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni.

Protagonista delle scene musicali di mezzo secolo, pure fuori, in un modo o nell’altro, è emersa la figura d’un uomo poliedrico, capace di stupire, divertire, indurre pensieri profondi. Aiutò Chet Baker durante l’ennesimo disastro della sua vita, quando fu pestato a sangue dai suoi creditori sì da non poter più continuare a suonare. Gillespie, segretamente, pagò gli interventi chirurgici ricostruttivi che consentirono a Baker di tornare a soffiare nella sua tromba. Alla fine, indagando, Chet Baker scoprì chi fosse il suo anonimo benefattore e sostò al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Gillespie, senza dir nulla, in quel modo intendendo ringraziarlo.

Nel 1963, l’agenzia che si occupava di promuovere le cose di Dizzy, la sua immagine, sfruttando il clima di propaganda per le presidenziali dell’anno successivo, quello della candidatura Kennedy, per intenderci, aveva fatto produrre delle spillette con la scritta “Dizzy for President”. Erano anni in cui la condizione dei neri d’America era drammatica. Quella era la sua gente, anche lui aveva vissuto in povertà estrema, provato sulla sua pelle cosa significasse la discriminazione razziale e ora che godeva di grande successo non poteva far finta di niente. I discorsi con cui Kennedy promosse la sua candidatura, per quanto apparissero dirompenti in questo senso, furono interpretati dai neri d’America come poco più che retorici. Per rivendicare altro che non fossero parole, decine di migliaia di manifestanti parteciparono alla marcia organizzata a Washington da Martin Luther King, tra quelli qualcuno tirò fuori la spilletta pubblicitaria “Dizzy for President”. Come dire, il dado era tratto.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy, salendo sul palco del Monterey Jazz Festival, urlò al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks compose pure l’inno della campagna elettorale: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”

Come al solito, Dizzy stupì il mondo. Mise insieme pure la lista dei suoi collaboratori e ministri: per Duke Ellington l’incarico doveva essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che era uno che coi botti ci sapeva fare, sarebbe divenuto Ministro della Difesa. A Louis Armstrong doveva andare il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus poteva essere Ministro della Pace? Manco a dirlo c’era Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali, Dizzy pensò a chi aveva lo sguardo giusto, pure la voce adatta, Ella Fitzgerald. Per Ray Charles c’era il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso ed a Mary Lou Williams toccava di andare a fare l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Mancava solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non c’erano dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

Sit down, please

Insomma, c'è quell'altro me che mi trascina in mille rivoli d'impegno. Che io glielo dico sempre che non è cosa per me e, sotto sotto, so pure – e anche lui lo sa, anche se non l'ammetterebbe nemmeno se lo lasciassi a pane e acqua (e passi per il pane, ma l'acqua e basta...) – che non è cosa manco per lui. Però c'è il lavoro, il sindacato, quelle due o tre cosarelle – come dice lui, ma risultano a me più di tre o quattro – che ci tengono sotto pressione. Per cui il blog non è che me lo coltivo come vorrei, che è cosa che, invero, mi piacerebbe fare. E sempre si corre a destra e manca, che, al massimo, posto quando mi capita, quando posso, sempre assai meno di quanto m'aggraderebbe. E ciò attiene alle ragioni per cui queste pagine esistono da un anno e mezzo circa. Qua e ora, pure se non richiesto, di questo tempo mi farei un bilancio piccolo piccolo, niente di serio, che coi bilanci non ho pratica. Insomma, io che coi social e la rete ho la stessa dimestichezza d'un alcolista con le dame di San Vincenzo, ad un certo punto mi faccio casa virtuale. Ci pensai che c'era il lockdown, ma quello è fatto accidentale, che l'esigenza era altra. Mi dovevo riprendere una rivincita sullo scrivere, che ce l'avevo con lui. Perché fra me e lo scrivere s'era stabilito un malinteso grosso come un palazzo. 
M'ero fatto persuaso che valesse la pena di scrivere se potevo farlo alla grande, se con quello non facevo prigionieri. In seconda battuta, potevo farlo per camparci, nel qual caso potevo anche indugiare in minchiate, e questo è quello che avevo fatto per anni, scrivere minchiate, intendo - che se ne andavano a ruba –, mentre, se qualcosa “alla grande” avrò scritto, non se ne sono accorti che in tre o quattro, pure scimuniti peggio di me, autentici nessuno senza arte nemmeno parte. Così non m'avvidi che di una sola soluzione: smettere, dimenticarmene. Stessa cosa feci con la fotografia, mi vendetti persino la cinghia della macchina fotografica, financo accettai la prima offerta, talmente pessima che non mi misi nemmeno a trattare, che era sopraggiunto l'estasi del sommo disgusto. Peggio ancora feci, fuggii addirittura dai luoghi dello scrivere, mi feci romita lontano dallo scoglio che mi diede natali. Alla soglia di Nettuno, sostituii le visuali di stimmate di Santo. E ad ogni tentativo di riprendere penna in mano, cascavo nello sconforto del “che senso ha?”, che non mi legge nessuno. Poi, fu fortuna – che non so spiegare - sopraggiunse il giorno del “chi se ne importa”, come fece Rosa, dunque, non del “chi se ne frega”, che ad altri confà di più. E qual solluchero nello scoprirmi di nuovo a scrivere, senza manco pensarci se bene o male, al come mi viene viene, al quello che esce esce, di getto, di brutto, d'istinto, solo per me, al più per i miei sassi. Che meraviglia riscoprirsi nessuno a scrivere, nessuno a leggere. Appagare questo nessuno per il semplice gusto di farlo, come si tracanna dalla coppa degli dei. Scoprire che non ci sono controindicazioni, nemmeno effetti collaterali. Scoprire che, se ti rilassi, e fai che t'aggrada davvero, senza pretendere altro se non quello in sé, è misterioso il risultato. Già, e sorprendente e misterioso premio che mi veniva dal rileggermi i commenti degli ultimi post, tanti assai che manco m'immaginavo (grazie di cuore, dunque, a chi ogni tanto passa da qui). Botte e risposte, divertite, garbate, che là fuori c'è un tasso di violenza che non capisco, di veemenza crudele, di sconforto collettivo – preciso che nemmeno io sono un ottimista d'acchito -. Che è tutto urlato, che pare di sentirle le urla che t'assordano pure in certo scritto, sbavante di rabbiose certezze, faziosità definitive, condanne sommarie. E qui invece mi pareva che c'eravamo messi fuori la sedia nei cortili lontani della mia isola, per cogliere la brezza che viene dal mare e stempera la calura dello scirocco. Che profumo di chiacchiere col fiasco sul gradino. Mi ricorda pure quando, nemmeno troppo tempo fa – un paio d'anni o tre al massimo – trovato lo slarghetto sui gradini d'un sagrato, con la banda dei soliti, valutando il deserto d'intorno nella notte, lontani dalle consuetudini, tirammo fuori la chitarra per strimpellare antiche delizie di commozione. Per prima s'affaccio' l'anziana signora, e si sedette ad ascoltare, “suonate, suonate, ragazzi” (sentirci appellati ragazzi ci fece un qualche effetto). Poi la ragazza venne a passo svelto verso di noi, sbucata dal palazzo che immaginavamo disabitato, come il tutto d'intorno dirupato. “Ne avete ancora?”. Che la vecchia amica rispose con garbo di mortifica che saremmo andati via subito, che non volevamo disturbare. Quella, invece, chiese un attimo e sparì dentro il portone scorticato, per riapparire con tanti bicchieri quanti ne bastavano e più bottiglie degli stessi, “Che anch'io voglio cantare”, disse, senza pubblico pagante