La Band (reunion)

Che oggi, dopo notte insonne per bufera, tempesta e spavento di lampo e di tuono che mai se ne vide manco a tempo di monsone, preda pure di scrutinio imminente, mi giocai parte di quindici minuti che mi dedico a giornata piena per acquisto di set di corda da strimpello di chitarra. Quasi m’appropinquo a che avrò spazio a giorno, forse a notte, per grattar con foga vecchia canzone a vecchio legno a disarmo da anni tre. Che pure quella, la chitarra intendo, fu a tempo assai addietro, compagna mia di quasi inseparabile sodalizio, e mi ricordai che ne feci cenno a bloghettino di sasso. E poiché tempo non me ne rimane, per scrivere d’altro, vi riannovero la cosa.

“Lo ammetto, pure mi pento, financo lo confesso, che confessarsi non è peccato, almeno così mi si disse, se memoria non falla: anch’io ci ho avuto la band. Che tempo, comunque, per venir su bene ce n’era poco, che io m’ero ripresentato ai miei lidi dopo aver servito la patria, ci avevo l’università, le casse di pesce da scaricare al mercato. Gli altri meglio non erano messi. Eravamo sei, formazione tipo, basso, chitarra (io), tastiere, sax, batteria, e ci avevamo pure la cantante, che però ci abbandonò. Che lei, la cantante, con noi si sentiva stretta, che aveva altre aspirazioni. S’era persuasa, infatti, che la sua splendida voce usignolea, un po’ amandaleariggiante, con inflessioni da bandezzo di mercato d’ortofrutta, a ben altre carriere l’avrebbe condotta. Che l’ascesa sociale, in effetti, l’ebbe. Partendo da riassetta camere di ristorante-albergo di mezza portata, assurse alfine a rango di guardarobiera, pure senza proferir nota o gorgheggio.

Suonavamo nelle bettole più scalcinate, nei pub di periferie ignote, stamberghe di quartieri sfollati, a cachet variabile, di norma non troppo, una cinquemila lire, un paio di birre – la terza ce la dovevamo pagare – e, all’uopo, pure un panino, però non troppo condito. Che il pubblico, alla prima birra era di bocca buona, alla seconda si faceva critico, alla terza visibilmente ostile. Il problema del cantante, si risolse facile, che me l’appioppai io, che però non cantavo, chiacchieravo a sottofondo musicale, che la cosa faceva molto intimista, con voce rauca e dizione passabile. Insomma, sgangherando note, venne il fatto che ci chiamò un manager, uno di quelli che organizzava le serate un tanto al chilo. Che noi a sapere chi fosse non ci tenevamo, che pareva ci avesse chiamato lo stesso che ci aveva in scuderia Lucio Dalla. Ci presentammo nel sottoscala un pomeriggio e lì, una tale Samantha, ci fece accomodare in attesa d’essere ricevuti. Poi fece ingresso l’uomo, che pareva letteralmente uguale a quello che t’immagini quando le cose precipitano, con tanto di colorito esangue e riportino a gel di cemento quattro stagioni. Manco levò gli occhi dai fogli SIAE, sbiascicò che le serate erano tre, pure dove, che era circolo prestigioso, di lustrini e semibische, che lui prendeva il cinquanta per cento e che l’ultima serata avremmo dovuto farla da spalla ad un comico emergente, che poi, quello, sarebbe pure emerso. Tre serate tra Natale e San Silvestro, che Capodanno l’avevano già dato. Pure ci chiese che repertorio avessimo, che quando glielo dicemmo chiamò Samantha per chiederle se non c’era altro in giro, e quella rispose che questo aveva trovato, che vista la stagione quelli buoni s’erano piazzati. “Questo suonate”, finì porgendoci un foglio con venti cose da ortica sotto le ascelle, pure con Le Foglie Morte da eseguire allo spettacolo del cabarettista, che manco sapevamo chi fosse. E neppure Le Foglie Morte sapevamo come si suonava. Appena finimmo coi convenevoli, tipo ancora il cinquanta per cento a lui, che il resto per noi era comunque assai più di quello che avevamo preso in tutta una carriera on the road, pure se a miseria competeva con la fame nera, se ne uscì con quella cosa: “Ma sempre così vi vestite voi?” Che all’assenso stupefatto, chinando il capo sulle faccende a bolli e carte, bofonchiò: “Non se ne parla, vi presentate vestito e cravatta, tutti uguali, e non mi fate casini”. Che nessuno di noi era dotato d’armamentari di quella fatta, che della cravatta ne avevamo sentito parlare, pure se due di noi giuravano d’esserla messa una volta per sposalizio di congiunto, ma poi l’avevano dovuta restituire. Insomma, la cosa non era di soluzione facile che l’investimento rischiava di emungere la falda del compenso fino a fondo. Ma v’era, allora, tale Arnaldo che vendeva vestiti grosso modo nuovi, di stock incandescenti, in negozio aggrottato, a prezzi sospetti. Cinque uguali ce li aveva solo di un tipo, di velluto marron, con tanto di panciotto. Le cravatte ce le regalò, la camicia bianca e le scarpe di coppale ce le procurammo a consulto d’amici e parenti. Le prove furono da riflessi emetici, che qualche preoccupazione l’avevamo, e per fortuna più che qualche giro di do non ci toccava. Ma Le Foglie Morte proprio non ci veniva. Le prime due serate passarono senza incidenti particolari, che quando ci facevamo la pausa, la compassionevole ragazza del bar del circolo, ci passava qualche bicchierino ed uno stuzzico di plastica all’arsenico. Né, se smettevamo di suonare, qualcuno se ne lagnava, che parevamo complementi d’arredo. La terza fu complicata, che tutti erano attenti, che c’era lo spettacolo, che il comico faceva ridere e noi dovevamo rispettare tempi di risata in lacrime dentro vesti di martirio. Venne il tempo di Le Foglie Morte. E come accadde non lo so, ma ci venne perfetta, che finimmo di suonare che manco sapevamo se eravamo stati noi o qualche spiritello bislacco ci aveva sparati in playback. E si levò l’ovazione commossa del pubblicò, pure il comico, a microfono sguainato, non si sottrasse a giubilo e, felice come pasqua, declamò: “E bravi i maestri… col vestito di moquette”.

Radio Pirata 33 (ode al telecomando)

Radio Pirata approda a Trentatré che son come anni di tale in croce in illo tempore. Che pure casca a pennello che pare che di morto ammazzato, a giorno di oggi, non c’è a scordarsi. Che c’è coro unanime a scrivo io epitaffio più bello, che bomba fu tragedia autentica di stato, che tutto mondo di migliori si stringe a contrizione a ricordo commosso di eroi di patria che soccombero a mano armata di telecomando di mammasantissima. Lì s’ebbe prova di scienza di certa pericolosità di telecomando che, ad anni uno da grande scoppio, signore di telecomando a resuscito per sostegno di migliori, venne a farsi primo fra primi. Inizio a primo posto anch’io a nota elevatissima, d’asciutto però, che d’unto ho solo bruschetta di pomodoro.

Nemmeno a memoria c’è che mi scordo di tali morti ammazzati a bomba, che pareva di guerra a Sudamerica, che colpevole non è chiaro, che tutti sono innocenti, pure se voltano faccia altrove per trent’anni. Poi, d’improvviso, tutti si ricorda che esiste grande mammasantissima. Che però scompare a fra un quarto d’ora dopo mezzanotte, se tutto va bene. Poi c’è pensiero sempre fulgido e luminoso di migliori fra migliori che dice, di cosa stavamo parlando? E di discorso si fa a cambio che c’è altra bomba che mi cattura ad attenzione, che quella è bomba giusta e ne compro a quintalate. Faccio scoppio di musica.

E in caso bomba smette, c’è bomba nuova pronta, che nostro fedele padrone, che dice a modestia sua ch’è alleato, ribadisce che c’è odore di santità per giustezza a compro bomba, per popolo c’è sempre compro oro, oppure strozzo va anche in voga, che da domani mammasantissima circola tranquillo che finì giorno di comanda.

E se taluno, a malvagità di definizione, smette di lancio bomba che blocca sacra legge di mercato, indice s’innalza che si continui pure da altra parte e si dice a superpotentissimo di prezzo basso, guai a te se ti muovi, che noi siamo qui, che mercato di bombarda e missilissimo è pronto all’uopo d’intervento. Musica sia per carica di cavalleria.

Che grande distesa di muscolo, se è caso, la faccio su spiaggia pulita d’isola bella, che chiamo pure studente a partecipo, che s’istruisce ad amor patrio di bombarda d’accordo internazionale. Poi chiamo a sotto armi e come conduttore di Radio Pirata, a tempo debito, faccio siringone di plurivaccino che ora c’è pure orrendo nuovo morbo. Che fu fortuna che è ad arrivo nuova e feroce pandemia , che si ritrova posto di lavoro a salotto con telecomando – per corso e ricorso di storia, sempre a tasto giusto premo – a provetto epidemiologo che era a rischio di reddito di cittadinanza per mancanza di tallero a comparsata. Compare musica qui.

Ma questa è pandemia di scimmia, pare manna a cielo, ch’ebbe a dimostro di ragione il grande governo di migliori a dire che profugo è solo tale, tal altro è a contatto di scimmia, tutto mondo infetta, tutto mondo che però riconosce grande intuizione di grandi fra grandi. Che quello, finto profugo, è a malvagio d’animo, manco si mette svastichetta per camuffo ad eroe di patria invasa, ma fa mercimonio e promiscuità con creatura d’altra specie e ne cattura infimo male. Che fu fortuna che noi s’ebbe, come colpo in canna, armamentario di vaccino a sfare, che ora è corsa a polivalente che immunizza pure da uso distorto di telecomando che non è a lancio da scogliera elevata, ma d’obbligo di rapido passo di qua e di là, dove s’accoglie il tutto uguale. E di musica chiudo. Ma pure mi verrebbe di chiudere, punto.

La Band

Lo ammetto, pure mi pento, financo lo confesso, che confessarsi non è peccato, almeno così mi si disse, se memoria non falla: anch’io ci ho avuto la band (e intanto che musica sia).

Che tempo, comunque, per venir su bene ce n’era poco, che io m’ero ripresentato ai miei lidi dopo aver servito la patria, ci avevo l’università, le casse di pesce da scaricare al mercato. Gli altri meglio non erano messi. Eravamo sei, formazione tipo, basso chitarra (io), tastiere, sax, batteria, e ci avevamo pure la cantante, che però ci abbandonò. Che lei, la cantante intendo, con noi si sentiva stretta, che aveva altre aspirazioni. S’era persuasa, infatti, che la sua splendida voce usignolea, un po’ amandaleariggiante, con inflessioni da bandezzo di mercato d’ortofrutta, a ben altre carriere l’avrebbe condotta. Che l’ascesa sociale, in effetti, l’ebbe, partendo da riassetta camere di ristorante-albergo di mezza portata, assurse alfine a rango di guardarobiera, pure senza proferir nota o gorgheggio.

Suonavamo nelle bettole più scalcinate, nei pub di periferie ignote, stamberghe di quartieri sfollati, a cachet variabile, di norma non troppo, una cinquemila lire, un paio di birre – la terza ce la dovevamo pagare – e, all’uopo, pure un panino, però non troppo condito. Che il pubblico, alla prima birra, era di bocca buona, alla seconda si faceva critico, alla terza visibilmente ostile. Il problema del cantante, si risolse facile, che me l’appioppai io, che però non cantavo, chiacchieravo a sottofondo musicale, che la cosa faceva molto intimista, con voce rauca e dizione passabile. Insomma, sgangherando note, venne il fatto che ci chiamò un manager, uno di quelli che organizzava le serate un tanto al chilo. Che noi a sapere chi fosse non ci tenevamo, che pareva ci avesse chiamato lo stesso che ci aveva in scuderia Lucio Dalla. Ci presentammo nel sottoscala un pomeriggio, e lì, una tale Samantha, ci fece accomodare in attesa d’essere ricevuti. Poi ci accomodò e l’uomo, che pareva letteralmente uguale a quello che t’immagini quando le cose precipitano, con tanto di colorito esangue e riportino a gel di cemento quattro stagioni, manco levò gli occhi dai fogli SIAE, sbiascicò che le serate erano tre, pure dove, che era circolo prestigioso, di lustrini e semibische, che lui prendeva il cinquanta per cento e che l’ultima serata avremmo dovuto farla da spalla ad un comico emergente, che poi, quello, sarebbe pure emerso. Tre serate tra Natale e San Silvestro, che Capodanno l’avevano già dato. Pure ci chiese che repertorio avessimo, che quando glielo dicemmo, chiamò Samantha per chiederle se non c’era altro in giro, e quella rispose che questo aveva trovato, che vista la stagione quelli buoni s’erano piazzati. “Questo suonate”, finì porgendoci un foglio con venti cose da ortica sotto le ascelle, pure con Le Foglie Morte da eseguire allo spettacolo del cabarettista, che manco sapevamo chi fosse. E neppure Le Foglie Morte sapevamo come si suonava. Appena finimmo coi convenevoli, tipo ancora il cinquanta per cento a lui, che il resto per noi era comunque assai più di quello che avevamo preso in tutta una carriera on the road, pure se a miseria competeva con la fame nera, se ne uscì con quella cosa: “Ma sempre così vi vestite voi?” Che all’assenso stupefatto, chinando il capo sulle faccende a bolli e carte, bofonchiò: “Non se ne parla, vi presentate vestito e cravatta, tutti uguali, e non mi fate casini”. Che nessuno di noi era dotato d’armamentari di quella fatta, che della cravatta ne avevamo sentito parlare, pure se due di noi giuravano d’esserla messa una volta per sposalizio di congiunto, ma poi l’avevano dovuta restituire. Insomma, la cosa non era di soluzione facile, che l’investimento rischiava di emungere la falda del compenso fino a fondo. Ma v’era, allora, tale Arnaldo, che vendeva vestiti grosso modo nuovi, di stock incandescenti, in negozio aggrottato, a prezzi sospetti. Cinque uguali ce li aveva solo di un tipo, di velluto marron, con tanto di panciotto. Le cravatte ce le regalò, la camicia bianca e le scarpe di coppale ce le procurammo a consulto d’amici e parenti. Le prove furono da riflessi emetici, che qualche preoccupazione l’avevamo, e per fortuna più che qualche giro di do non ci toccava. Ma Le Foglie Morte, proprio non ci veniva. Le prime due serate passarono senza incidenti particolari, che quando ci facevamo la pausa, la compassionevole ragazza del bar del circolo, ci passava qualche bicchierino ed uno stuzzico di plastica all’arsenico. Né, se smettevamo di suonare, qualcuno se ne lagnava, che parevamo complementi d’arredo. La terza fu complicata, che tutti erano attenti, che c’era lo spettacolo, che il comico faceva ridere e noi dovevamo rispettare i tempi comici e invece piangevamo dentro vesti di martirio. E poi toccò a Le Foglie Morte. E come accadde non lo so, ma ci venne perfetta, che finimmo di suonare che manco sapevamo se eravamo stati noi o qualche spiritello bislacco ci aveva sparati in playback. E si levò l’ovazione commossa del pubblicò, pure il comico, a microfono sguainato, non si sottrasse e, felice come pasqua, declamò: “E bravi i maestri, col vestito di moquette”.

Foglie di fico

Che poi io non ce l’ho mica con Greta, che la ragazza in sé m’è pure simpatica, in un certo senso, per un perché che però mi sfugge. Invero, mi provoca talora pruriginosa orticaria se argomenta, ad esempio, di carta igienica ai cinesi, tralasciando di menzionare le soffici cellulose scandinave, ed apparendomi assai più isolata – e desolata – foglia di fico, che paladina della foresta. Pure, mi sono chiesto, che ci abbiano di così magico e suadente certi deretani – ne parlo in senso generale, non ne faccio questione di preferenze cromatiche o d’altro – di estreme latitudini nordiche o longitudini occidentali, rispetto ai corrispettivi sul fiume Giallo, per meritarsi – loro si – tocchi igienici vellutati post-evacuazioni, mentre per quegli altri la stessa pratica diventa pericolo mortale per il pianeta? E però mi fa piacere che tanti giovani si spellino le mani e le corrano dietro, che si preoccupino e occupino delle cose. Certo, ho quella decadente sensazione che non affondino il colpo, ma cosa si pretende dopo decenni di Napalm neuronale? Che si mettano a fare profonde analisi antropologiche sugli screanzati comportamenti di massa dell’occidente intero, ivi compreso il nuovo occidente che s’apre ad oriente?

A me fa piacere che quei giovani s’aprano alla consapevolezza. M’arrovello per quegli altri che non lo fanno, più vecchi d’assai, che certe dinamiche di transizione hanno vissute senza batter ciglio, pure talora financo le hanno desiderate ed auspicate. E non voglio mica rispolverare antichi miti come Chico Mendés (“l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”), che poi passo per nostalgico. Ma ai fans di Greta, chiederei, sommessamente, di continuare, se vogliono, a venerarla come divinità olimpica, ma che magari, visto che il problema non sono esattamente i salotti scandinavi per i quali nutro autentica e smisurata ammirazione, ma i ghiacciai del Polo, le foreste equatoriali, i predeserti e i mari dell’altro pianeta, di invitare ai convegni anche Esquimesi, pastori del Mali, Indios dell’Amazzonia. Che ci avete paura di non trovare un interprete? O forse i meritevoli – e attempati – finanziatori ed organizzatori di occasioni d’incontro a così alti livelli decisionali con lo sguardo enigmatico e accusatorio della giovane paladina, hanno paura davvero che i Cinesi ci rubino la carta igienica? Nel qual caso suggerisco l’alternativa d’usare in sua vece proprio le foglie di fico, così qualche pianta fotosintetica la piantate all’uopo e per un nobile uso, magari – ancora sommessamente suggerisco- senza far confusione con quelle d’India.

De profundis per il mondo che fu (Allonsanfàn parte terza: Ignazio Monteleone)

Se ne vanno i presidi di civiltà, si spengono come per destini cinici e bari, ineluttabili per volontà supreme. Nel rientro ai lidi natii si contano i pezzi mancanti, ci si rattrista delle liturgie soppresse. Constatare il vuoto siderale della vetrina, la saracinesca spenta, i libri nella penombra, ammassati e privi di vita, la carta smunta d’umidità antica, produce una sorta di cupo presagio d’abbandono definitivo. La vecchia libreria non c’è più, quel punto centrale nel quadrato della palma ha smesso d’esistere, per quel virus che non lascia scampo, che non si cura di vaccini né di vitamine, nemmeno di terapie d’urto. Rimane la prospettiva bugiarda del fascino d’un sottopasso, che echeggia di antichi simposi divertiti, conversazioni senza sbocco, dunque, d’orizzonti vertiginosi. È il nulla che non si riempie, la resa incondizionata alla barbarie. Una libreria che chiude è sconfitta bruciante, non per chi ne usufruiva e basta, pure e persino per chi non s’è mai reso conto che lì ve ne fosse una, o forse ne era, al più, a distratta conoscenza.

Le resistenze sembrano ormai sepolte, ma val la pena cercarne le sacche residuali, per vedere se qualcosa di fiamma è rimasta sotto la cenere. È così che mi ritrovo da Ignazio Monteleone, che è pittore resistente per definizione, già dai tempi in cui non pareva nemmeno il caso di resistere, in cui non s’avvedeva che ci fosse di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava l’assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente anche il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era scuola, un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi. Come faceva il Maestro Manzi, quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani senza memoria, lui smantella sovrastrutture, per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo.

I suoi lavori aderiscono alla stessa ricerca incessante della bellezza che sta nel tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), un don Chichotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come già Quasimodo e Vittorini, pure da queste parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta, che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini all’Accademia, messaggi di avanguardie isolane, ed approdi per ogni continente. Colori precisi, e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso, sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, la sintesi dell’oggetto che ne amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime e resistenti, se reggono, almeno quelle, è una buona notizia.