Confiteor

Di una cosa voglio parlare, a moto d’indignazione e mea culpa, per rimuovere da coscienza azione mia assai disdicevole. Mosso ancora d’insufficiente pentimento, mi decido di vuotare il sacco, a scopo d’espiazione, circa l’esistenza d’organizzazione tremenda, manipolo di sciagura, che s’atteggia, nel silenzio e nell’oscuro – dove invero merita posizione esclusiva – a congrega di distruzione di civiltà. Che tanto m’è a dolore di viscere per la prova provata che n’ebbi, che a bottiglia quale ultimo appiglio di disperazione mi rivolsi, pure trovai parziale conforto a musica. Ve ne offro di buona ed altrettanto espiatoria.

Ora, io m’avvedo che i destini d’umanità sono legati all’azione di pochi saggi e, mentre il mondo intero saluta pandemia per abrogazione ex legis, questi s’attrezzano a bomba per risorgimento autentico. Tali e altri indurrebbero a partecipazione anch’essi, poiché piatto ricco mi ci ficco, giammai per sé stessi, o, come sostenuto da biechi oscurantisti, per pura bramosia di sangue e potere, piuttosto per destino fulgido di civiltà. Che sfoltita a genere umano era opportuno che vi fosse, per conservazione di specie, puntellamento d’economie traballate da virus. Eppure, che ciò è evidente a stolto, che ne ho prove che convincerebbero un cieco, v’è contezza in me d’altrettanto pochi che in ombra tramano a sventare la faticosa elevazione a grande civiltà d’intero pianeta.

Partiamo dal principio, che meglio vi spiego se dettaglio. Ebbi le prime avvisaglie dell’orrendo complotto l’estate scorsa, che me ne andavo a banchina di molo, speranzoso in totano di Pilu Rais, con portafoglio rifornito a bancomat. Già m’ero persuaso di colpe, di peccati, sia pure lievi, che optavo per ciò in luogo di tramezzino a surgelato al sapore di granchio delle Molucche con odore di funghetto trifolato in petrolio raffinatissimo. Ma ciò che vidi m’orripilò. Il tale, vestito a camuffo a pantaloncino, con fare furtivo e circospezione, s’era appropinquato al vecchio pescatore con cesto di pomodoro e, consegnatolo, ne ricevette in cambio cartoccio di pinne e lische. Sospettai ciò che poi, ingenuamente, mi fu confessato: ci fu baratto. Seppi, di lì a poco, che v’era usanza diffusa di trasferirsi, proprio lì, in terra mia di civiltà aulica, in campagna, per autosufficienza alimentare, che non v’era interesse in dette persone di partecipar a dolore di crisi, con contributo a cassa di centro commerciale.

Di più, tale abiezione s’era fatta moda, e tali e tanti me ne indicarono, che non ressi a pianto. Ciò che invero mi turbò è che questi infingardi, nemici d’uomo e di progresso, mostravano – con chiaro intendimento di proselitista – sguardi felici e beati, sì da catturare a contagio i più fragili. L’orrore mi pervase che tornai a casa non senza aver pienato due carrelli di supermercato di minchiate, in atto di generosa compensazione. La cosa si ripetè. Un amico, possessore di orto proprio, mi disse di aver scambiato certe sue produzioni con olio e frutta secca, un altro, che fa di mestiere il musico, mi riferì di suono a festa di compleanno di tribù, a cambio di derrate varie, quali vino, cavolo e persino salamoie e formaggio. Mi si riferì di tale che esercitava professione di ripetizioni di latino a figlio di contadino aggratis e che talora veniva ricompensato con caci di forma varia. C’era dato a soffrire tutti per gesto di pochi. Ormai m’era chiaro. Eppure tutto mi sarei aspettato tranne di finire io stesso travolto dall’inganno. Dapprima il germe della rottura civile mi s’è insinuato lento, come un prurito sotto la pelle cui non diedi peso particolare, sino all’episodio fatale. Si, è vero che cucinai per feste di natale in maggior abbondanza prodotti di pesca di cugino, per distribuirne eccesso ad amici fraterni, pure, quelli, ricambiarono con d’altro di cui disponevano. Ma la situazione è precipitata proprio stamane. Mi trovavo, com’è giusto che sia, a far benzina, poi, che m’era finita libagione, m’ero per affacciarmi, qual cittadino modello, a centro commerciale. Ma, proprio su ciglio di strada, notai movimenti di tale conosciuto c’armeggiava in portabagagli d’auto con fare di chi occulta cadaveri. M’avvicinai e lì, stipato, c’era vino in damigiana per dar da bere a truppa. Rosso che macchiava pure il vetro di fuori. Ne chiesi lumi e mi fu risposto che trattavasi di vino di antico contadino, aspro e che sa di terra, – il vino, non il contadino – e che lui, piccolo agricoltore, l’aveva avuto in cambio di formaggio di capra sua, castagne e patate. Ormai corrotto dalla vista della trappola a gola, prestai il fianco, che mi si chiese in cambio d’una damigiana un paio di libri di quell’altro me che opinatamente tengo a mo’ di tappetino d’auto. M’allontanai soddisfatto, lì per lì inconsapevole del misfatto. In casa mi svegliai dall’incubo e m’arrovellai per l’accaduto, ché mi tocco dar fondo alla scorta avuta illecitamente. Ed ora, contrito nel mio dolore, spero nel perdono di comunità intera, che, senza passaggio a bancomat, come neanderthalensis che tinge fondo di caverna, commisi delitto di scambiar cultura con coltura.